Perché leggere questo articolo: Il “giudizio” del rating parla una sola lingua. E cioé l’inglese dei grandi fondi anglosassoni. Viene da chiedersi perché l’Ue non si attrezzi con una sua agenzia. Il problema sta in gelosie, pregiudizi e rivalità tra i Ventisette.
Le notizie di un possibile declassamento dell’Italia ad opera dell’agenzia di rating Moody’s ha fatto molto discutere negli ultimi giorni. Periodicamente, ritorna sul Paese e sugli altri più indebitati d’Europa la Spada di Damocle del “giudizio dei mercati”. Moody’s, Fitch e Standard and Poor’s, i tre colossi angloamericani del debito, e la minore Dbrs, canadese, sono i decisori più importanti sulle scelte di investimento degli operatori globali.
Lo spettro del giudizio dei mercati
Il “giudizio dei mercati” e del rating, che mostra la solvibilità di un Paese di fronte agli shock finanziari e macroeconomici, è sempre un giudizio costruito tra Londra e New York. Un giudizio a cui molte grandi istituzioni, pubbliche e private, vincolano i loro progetti di investimento. Alcuni fondi, ad esempio, non acquistano prodotti obbligazionari non giudicati a livello investment-grade dalle principali agenzie. E per un Paese come l’Italia, vedere il debito declassato a junk, spazzatura, imporrebbe una vendita di massa di titoli. Con le ovvie conseguenze del caso.
Come ogni ente, le agenzie di rating rispecchiano un progetto economico-finanziario, quello del controllo del mondo anglo-americano sui mercati globali. Tutto questo a prescindere dai flop del passato. Nel 2008 garantivano proficui rating da tripla A alle banche e ai titoli Usa prossimi al crollo di Lehmann, per fare un esempio.
Ciononostante, i colossi del rating dettano legge. Manca, in quest’ottica, una voce europea. Il mercato più grande del mondo, quello dell’Unione Europea, non tocca palla nella definizione delle regole di investimento e del giudizio di affidabilità. Né può condizionarle in profondità. Quando Moody’s, Fitch e Standard and Poor’s osarono criticare l’affidabilità dei Treasury americani, nello scorso decennio, ricevettero forti critiche da Barack Obama e dal suo governo. La Commissione ha spesso taciuto di fronte a analoghe mosse contro Paesi europei.
I ritardi europei
L’unica agenzia di rating europea è oggi Scope, società tedesca con sede a Berlino e uffici a Francoforte, Londra, Madrid, Milano, Oslo e Parigi. L’agenzia tedesca ha giudicato in maniera molto pacata i problemi delle banche italiane ed europee ed è specializzata sul settore privato, ma rappresenta l’unico esempio, in tono minore, di competizione con l’Occidente angloamericano. Manca da tempo un’azione comune europea per una strategia alternativa. Il motivo? I pregiudizi interni all’Europa hanno fermato ogni dibattito in tal senso. L’uso strumentale dell’affidabilità di una nazione come arma politica ha, con miopia, evitato che si remasse in maniera comune verso un giudizio generale dell’Europa fatto dagli europei.
Inoltre, chi ha più interesse a una stabilizzazione sono i perdenti, relativi, di questo gioco. Italia e Francia hanno provato ad esempio ai tempi dell’asse Draghi-Macron sul Trattato del Quirinale a proporre creare un’Agenzia Europea del Debito con potere di emettere obbligazioni a rating AAA+ garantite dall’Europa, riprendendo la tesi del gruppo di lavoro di economisti guidato dal bocconiano Massimo Amato nel 2020. Ma la Germania, i Paesi Bassi e i falchi nordici, garantiti dal mondo anglosassone da rating altissimi e di alta affidabilità, hanno frenato.
I “padroni del rating” e la sfida cinese
Un esempio di miopia che ha consegnato l’Europa alla custodia americana. Spesso interessata e legata al controllo sui tre principali centri da parte dei grandi della finanza. Mario Lettieri, già sottosegretario all’Economia, e Paolo Raimondi, economista, ne hanno dato conto su Linkiesta classificando gli azionisti delle tre major: “Per Moody’s, il 13,4 è nelle mani della finanziaria Berkshire Hathway del banchiere e speculatore Warren Buffet, poi vengono i fondi di investimento Vanguard e Blackrock. Questi due ultimi sono anche i maggiori azionisti, ciascuno con oltre l’8%, di S&P. Vanguard e Blackrock, con l’altro fondo SSGA, sono le massime potenze del cosiddetto settore non banking financial insitutions (nbfi), con asset stimati nel 2019 a 14.000 miliardi di dollari e con importanti partecipazioni azionarie nelle maggiori corporation americane”.
Chi sta provando a remare in forma diversa, per ora, è la Cina, con la sua agenzia di rating Dagong. L’agenzia, molto quotata nei Paesi in via di sviluppo, è stata la prima ad abbassare il rating degli Stati Uniti, portandolo ad A+ nel giugno del 2010 e ad A nell’agosto 2011, negando inoltre la massima affidabilità (AAA) alla Germania. Essendo impossibilitata ad agire negli States, però, Dagong è limitata nel suo potere d’influenza globale.
La lezione africana sul rating
Chi si sta muovendo è anche l’Africa. La sudafricana Sovereign Africa Ratings è sempre più attenzionata dall’Unione Africana per la sua capacità di cercare un modello indipendente di giudizio. Ha affidato al suo Paese di riferimento un rating BBB+, due livelli sopra quello di Moody’s e Standard&Poor’s. Il motivo? L’introduzione di un modello che attribuisce un peso rilevante alla ricchezza mineraria del territorio come indicatore di performance. Un passo avanti nell’autopercezione finanziaria ed economica che inserisce un elemento fondamentale: la diversità tra i sistemi-mondo dell’economia.
Non tutto si può leggere unicamente col prisma del modello finanziarizzato ad alta intensità di capitali del sistema anglosassone. L’Europa potrebbe fare altrimenti. Inserendo elementi come i livelli di risparmio e di stabilità economica interna nel giudizio. Ma finora nulla è stato fatto in tal senso. A penalizzare l’Europa è l’ignavia interna. Fonte di riduzione dell’influenza economica del primo sistema per Pil. Ininfluente, però, all’atto pratico nel decidere le regole del gioco.