Perché questo articolo potrebbe interessarti? Le mutilazioni territoriali e il cambiamento di confini a volte consegnano ai posteri Paesi privati di risorse e società molto più deboli. Lo dimostra il caso del Sudan, oggi di nuovo ostaggio di un’ennesima guerra civile nata anche sulla spinta della secessione del Sud Sudan.
Il Sudan è uno dei Paesi dai confini più mutevoli. Esistono forse pochi esempi in grado di dimostrare l’importanza per uno Stato di salvaguardare le proprie frontiere. E forse, da questo punto di vista, la situazione in Sudan spiega il motivo per cui l’Ucraina non vuole cedere le proprie regioni attualmente occupate dai russi. Ogni qualvolta che un Paese subisce una mutilazione, alla lunga è destinato a implodere. Ci sono meno risorse, cresce il rischio di faide interne e, se il Paese in questione esce da un lungo conflitto, aumenta la possibilità di veder un maggior numero di gruppi e bande armate. In poche parole, il caso sudanese dimostra come il cambio di confini spesso coincida con stravolgimenti interni difficili poi da superare.
La lunga storia di mutilazioni del territorio del Sudan
Il Paese inizia a perdere pezzi già prima dell’indipendenza. Nel 1934 un accordo tra Italia e Gran Bretagna consente la cessione del cosiddetto “Triangolo di Sarra” da parte dell’allora Sudan gestito da Londra alla Libia italiana. Ancora oggi questo angolo di Sahara rappresenta l’ultimo avamposto dell’attuale Libia prima del confine sudanese. Con l’indipendenza raggiunta nel 1956, sono poi esplose le varie contraddizioni e contrapposizioni interne che hanno portato alle tante guerre civili. Tuttavia il Sudan è riuscito a conservare il proprio territorio fino agli inizi del nuovo secolo.
Nel 2011 le regioni meridionali del Paese hanno deciso, tramite un referendum concordato con l’Onu e previsto negli accordi di pace tra il governo di Khartoum e le forze del Sud Sudan, di staccarsi. Una mutilazione importante, in grado di tagliare via un vasto territorio dove si trova l’80% almeno dei giacimenti petroliferi sudanesi. Meno risorse quindi e meno ricchezze. Anche se le infrastrutture si trovano a nord, nell’attuale territorio sudanese, gran parte dei proventi dell’oro nero adesso devono essere quantomeno condivisi con il Sud Sudan. Un colpo molto duro per l’economia di Khartoum, già gravemente compromessa.
Perché il caos di oggi è figlio delle perdite territoriali
I mali del Sudan non arrivano certo tutti da quella mutilazione. Tuttavia, la scissione con il Sud Sudan ha contribuito ad alimentarli. Meno introiti ha voluto significare anche meno spesa sociale. Questo ha coinciso con una più marcata disuguaglianza sociale e quindi maggiori tensioni nel Paese. Il Sudan, oltre che il conflitto nel sud, aveva in corso anche quello nel Darfur. Regione abitata in maggioranza dalle popolazioni nilotiche dei fur, soggette a massacri da parte della milizia arabofona dei janjaweed.
Nel 2013, l’allora presidente Al Bashir ha costituito la Forza di Supporto Rapido (Rsf) per reprimere le tante proteste che stavano nascendo. Le Rsf sono state affidate a Hemet Dagalo, uno dei capi dei janjaweed. E quest’ultimo ne ha approfittato non solo per mettere una pietra tombale sui tanti massacri delle sue milizie, ma anche per accaparrarsi le risorse rimaste nel Sudan. A partire dall’oro, le cui miniere di estrazione sono state occupate dalle Rsf nel 2017. Il potere assunto dalla forza parlamilitare è tale da permettere a Dagalo di diventare l’uomo più potente del Sudan. Tanto da potersi permettere di lasciare al suo destino Al Bashir nel 2019, anno del golpe contro l’ex presidente.
Il resto è storia dei giorni nostri. Lo scontro per le risorse rimaste nel Sudan ha portato a un progressivo allontanamento tra Rsf ed esercito regolare, culminato poi nel conflitto diretto scoppiato nell’aprile scorso. Il Paese, dopo la mutilazione del 2011, si è ritrovato con meno risorse, con tante bande armate eredi dei conflitti precedenti e con una crisi sociale sempre più marcata. Un mix che ha innescato quindi le ultime tensioni e che rischia di far implodere del tutto la società del Sudan.
Una lezione anche per altri Stati
A Kiev forse guardano con attenzione a Khartoum per giustificare i tentativi di riconquista del territorio occupato dai russi. Dietro la volontà ucraina cioè ci sarebbe non solo una motivazione ideologica, legata alla difesa dei confini, ma anche pratica: senza una parte dello Stato, l’Ucraina rimasta in piedi rischia a lungo andare di implodere. Proprio come nel Sudan.
Se l’esercito ucraino dovesse definitivamente perdere il controllo delle miniere del Donbass, dei porti sull’Azov e di una parte delle coste del Mar Nero e delle campagne di Zaporizhzhia, Kiev si ritroverebbe irrimediabilmente indebolita. Con molte armi in circolazione, con tante bande pronte a contendersi le risorse rimaste. L’impressione è che la lezione sudanese appaia come un monito per gli altri Stati: nel difendere i propri confini, si difende la propria stessa sopravvivenza.