La Sirenetta è un ginepraio. Tra i nostalgici del cartone animato e le nuove leve attiviste social, sembra impossibile criticare il lungometraggio in live action di Rob Marshall senza poi pagarne lo scotto. Ossia passare, ad andare bene, per razzista, per membri fondatori del Ku Klux Klan, per le Ursule di turno. Ciononostante, ben consapevoli della minaccia d’esilio nelle patrie galere, siamo qui a criticarlo. Partiamo da un presupposto fattuale: a livello cinematografico, il live action de La Sirenetta è fatto della stessa consistenza del plancton.
Inutile soffermarcisi, dunque. Sembra che nessuno o quasi sia disposto ad accettare come l’intera operazione live action sia frutto di un puro calcolo di mercato da parte di Disney che punta a fare, ragionevolmente, i big money contando sulla nostalgia dei 30-40enni e sui loro marmocchi da portare al cinema in tutta serenità anche solo per tenerli buoni un paio d’ore. Infatti, ogni titolo, per quanto brutto, fa sempre furore ai box office mondiali. Ciò non significa in nessun modo che sia un prodotto di oggettiva qualità. E a rimetterci sono nuove e inedite storie che, infatti, non arrivano quasi più in sala. Minimo sforzo, massimo risultato. Rassegnati all’evidenza che questo sia un concetto troppo complesso da metabolizzare per i più, passiamo a un aspetto parimenti interessante: il messaggio del film (che vorrebbe tanto essere) di forsennato empowerment femminista e che si risolve, tramite un complesso sistema di tridenti e leve, nel suo esatto contrario. Andiamo, con coraggio, a scoprire la (vera) “magia Disney” in fondo al mar…
La Sirenetta: Tritone è un “maschio etero basic” (e pure misogino)
La Sirenetta, interpretata da Halle Bailey, è figlia di Tritone, il re dei Mari. In tutto, ha sei sorelle (come nel cartone originale) nate dallo stesso padre e… da madri ignote. Se è vero che il film comincia con un’assemblea che riunisce tutte al cospetto di papino per parlare dell’andamento del regno, le mamme delle fanciulle codate non si vedono. Perché ne parliamo al plurale? Semplice: le giovani hanno tutte etnie diverse. C’è l’orientale, l’indiana, quella color ebano e così via… Difficile ipotizzare che siano state generate dalla medesima coppia. Dunque, ogni mammà che fine ha fatto? Ha partorito ed è stata allontanata dal reame quando a Tritone sono saliti diversi appetiti? Chissà. Resta che non esiste alcuna figura femminile adulta di potere all’interno di questa bellissima storia di empowerment. Come nell’organigramma del Regno. Anche perché l’unica adulta consanguinea del sovrano, Ursula, è stata esiliata quindici anni addietro senza che allo spettatore venga fornita alcuna spiegazione plausibile. Tritone, dunque, come atto politico potrebbe aver rimpiazzato mogli alla stregua di copridivani. In più, ha allontanato dal comando sua sorella, sola donna con cui avrebbe potuto condividere il tridente del potere. Tritone è “maschio bianco basic”? Sì, anche solo contando quanti paletti di pura possessività metta alla figlia Ariel. Giusto un filo misogino, tuona solo per comandare, esiliare e vietare. Padre dell’anno.
La Sirenetta: morale della favola? Per farlo innamorare devi stare muta
Come sappiamo almeno dal 1989, La Sirenetta Ariel pur di scoprire cosa c’è sulla terraferma, fa un patto con zia Ursula che le concede fattezze umane togliendole però la voce. La missione della giovane neo-bipede sarà di far innamorare il Principe Eric, suo interesse sentimentale, nel giro di tre tramonti. Altrimenti, si ritroverà per sempre prigioniera della strega dei mari. Il fatto è che il nobile protagonista rimane affascinato dalla giovane muta. I due trascorrono questo date che oggi si definirebbe “cringe” mentre lui guarda le stelle e parla da solo e lei annuisce tutto il tempo, rapita. Il risultato? La vuole baciare. Anzi, quasi quasi portarla all’altare. Cosa che accadrà, come nella storia originale, nonostante le ingerenze di Ursula. Ora, visto che c’è stata tutta questa esigenza di restaurazione nel passaggio dal cartone animato al live action, perché non modificare anche la morale della favola? “Sposati una donna che stia sempre zitta” non suona come quintessenza di empowerment femminista. Di più, non lasceremmo in secondo piano anche un altro dato fattuale: Ariel viene definita “adolescente” fin dall’inizio del film. Non sappiamo la sua età, ma di certo non è maggiorenne. Il lieto fine della “favola” vede quindi una sposa bambina convolare a nozze con un principe affascinato più che da lei, dall’esotismo del mare aperto, da cui è irrimediabilmente attratto fin dalla prima inquadratura che ce lo mostra in scena. Tutto a posto? Sì, certo. Perché, finalmente, la maggior parte del cast non ha la pelle bianca. Quindi, si tratta per forza di un film equo, giusto e perfin progressista. Mentre il buonsenso annega in fondo al mar…