Perché questo articolo potrebbe piacerti? A 30 anni dalla stagione delle stragi di mafia, la criminalità organizzata in Italia sembra aver cambiato aspetto. E oggi sta provando a ramificarsi lì dove prima era assente
Pochi giorni fa si è avuto il trentesimo anniversario della strage di via dei Georgofili, a Firenze. Fra qualche altra settimana, sarà la volta invece del trentesimo anniversario di un’altra strage, quella di via Palestro a Milano. Si tratta delle azioni criminali compiute da cosa nostra nell’Italia continentale, dopo le stragi che nel 1992 hanno invece insanguinato la Sicilia.
Una stagione di terrore di cui ancora molti aspetti devono essere chiariti. A distanza di tre decenni esatti, l’Italia ha saputo rendere meno minacciose le mafie storicamente più presenti nel suo territorio? Oggi il nostro Paese è in grado di scongiurare una nuova escalation? Sono queste alcune delle domande che in tanti si stanno ponendo in questi mesi, anche alla luce dell’arresto di Matteo Messina Denaro.Le risposte hanno dei risvolti in chiaroscuro. Da un lato il potenziale “militare” della mafie appare drasticamente ridimensionato. Ma questo non ha coinciso con un ridimensionamento del potenziale economico. Anzi, si sta assistendo a un progressivo spostamento delle attività mafiose nel nord Italia.
La mafia a 30 anni dalle stragi
All’epoca delle stragi, l’attenzione era ovviamente puntata soprattutto su cosa nostra. L’organizzazione cioè radicata da decenni sull’isola, forse anche da prima dell’unità d’Italia. Ma è ben risaputo come a destare preoccupazione sono anche altre organizzazioni mafiose. A partire dalla ‘ndrangheta calabrese e dalla camorra campana, senza dimenticare la sacra corona unita presente soprattutto nel foggiano.
All’inizio degli anni ’90 cosa nostra era indubbiamente la più potente. Ai vertici si trovava il clan cosiddetto dei corleonesi, espressione che si riferisce al paese di origine di Totò Riina, Bennardo Provenzano e Leoluca Bagarella. I tre, nati a Corleone, hanno scalzato la “vecchia mafia” palermitana all’inizio degli anni ’80 al termine di una feroce guerra che ha decimato le famiglie rivali. Con corleonesi ben presto quindi si è iniziato a intendere anche coloro che, pur non essendo di Corleone, si sono schierati dalla parte della mafia “vincente”. Una mafia che ha appoggiato la strategia stragista. Riina, assieme ai fedelissimi (con eccezione, secondo le carte uscite via via dai processi, di Bennardo Provenzano), puntava ad alzare il tiro nei confronti dello Stato. E questo in risposta alle azioni politiche portate avanti da alcuni anni, volte a infliggere importanti colpi a cosa nostra.
La cosa nostra corleonese oggi non c’è più. Riina è stato catturato il 15 gennaio 1993, Bagarella nel 1995, tutti gli altri boss più vicini alla mafia vincente sono caduti nel giro di alcuni anni. Nel 2006 è stata la volta della cattura di Provenzano, quest’anno infine di Messina Denaro. Quest’ultimo originario della provincia di Trapani, ma fedelissimo dei corleonesi. La mafia siciliana è stata in parte disarticolata. Non c’è più una cupola che governa le famiglie, a Palermo ogni tentativo in questo senso è stato sventato sul nascere dai blitz delle forze dell’ordine.
Il fenomeno mafioso è però ancora presente. E in grado, soprattutto, di condizionare l’economia del territorio. Estendendo lo sguardo fuori dalla Sicilia, si è assistito alla scalata delle altre organizzazioni malavitose. La ‘ndrangheta calabrese ad esempio, oggi è ritenuta tra le più ramificate al mondo. Il commercio della droga e l’infiltrazione in molte aziende, anche al nord e all’estero, ne ha fatto un riferimento per la malavita internazionale. Con una presenza nel settentrione e in molti Paesi europei, fino ad arrivare anche negli Usa e in Australia. Stesso discorso vale per la camorra, la cui presa nei territori campani e in quelli dove è riuscita a far infiltrare le proprie famiglie è sempre più accentuata.
Il comportamento delle mafie nell’economia italiana
Ci sono diversi dati che confermano l’attuale situazione. Secondo una classifica stilata dalle Nazioni Unite, nella lista delle dieci mafie più pericolose al mondo, tre sono italiane. Cosa nostra è al sesto posto, la ‘ndrangheta al quarto e la camorra al terzo. Per la cronaca, in prima posizione si trova la Yakuza giapponese e subito dopo la Fratellanza Solncevskaja russa. La classifica tiene conto soprattutto del livello di radicamento territoriale e del potere corruttivo detenuto dalle organizzazioni. Ben si comprende quindi come il nostro Paese sia ancora preda delle mafie.
Nel 2021 uno studio della Banca d’Italia ha analizzato l’influenza delle organizzazioni malavitose nella nostra economia. Le mafie, in particolare, inciderebbero sull’1.1% del Pil. Ma, come sottolineato da via XX settembre, questa cifra è profondamente sottostimata. Essa fa riferimento unicamente al traffico di stupefacenti, al contrabbando e alla prostituzione. I proventi delle mafie arrivano anche dall’economia “legale”. È l’infiltrazione all’interno di aziende apparentemente sane a preoccupare di più. Perché conferisce alle organizzazioni maggiore influenza sul mercato e un gran potere coercitivo sul territorio.
I pericoli di uno sfondamento a nord
Stando sempre allo studio della Banca d’Italia, la presenza della mafia nella penisola non è legata unicamente ai territori di origine delle organizzazioni. Ovviamente è al sud che la criminalità fa sentire maggiormente il suo peso. Tuttavia da oramai diversi anni si sta assistendo a uno spostamento del baricentro delle attività verso il nord. A dimostrarlo sono anche le operazioni delle forze dell’ordine che, in più di un’occasione, nell’ultimo decennio hanno scovato cellule della ‘ndrangheta operative stabilmente in Lombardia e in Piemonte.
C’è un dato più di tutti che inquieta: il 30% delle aziende confiscate alle mafie, risulta localizzato nel nord Italia. È un ulteriore segno del progressivo passaggio verso settentrione delle attività criminali. Le motivazioni di questo “travaso” a nord non sarebbero da ricercarsi nel semplice spostamento di affiliati in altre regioni. La Banca d’Italia nel suo studio ha preso in considerazione altri fattori. Tra cui, soprattutto, il Pil pro capite e la dipendenza dalla spesa pubblica. In poche parole, lì dove in un territorio, sia a nord che a sud, ci sono massicci investimenti pubblici la mafia riesce a radicarsi. E questo perché è in grado di incidere sulle scelte politiche tramite la corruzione e l’influenza data dal potere malavitoso. Le organizzazioni si stanno orientando quindi verso quelle aree dove sono presenti massicci investimenti orientabili a proprio favore.
Liguria, Lombardia e Piemonte sono quindi aree esposte alla scalata del potere mafioso al nord. I dati preoccupano soprattutto in prospettiva: lo sguardo delle cosche rivolto alle amministrazioni dell’area settentrionale e la pioggia di investimenti dati dal Pnrr, rischiano in futuro di dare alla criminalità una influenza sempre maggiore sul mercato e sull’economia.