Perché questo articolo potrebbe interessarti? Il caso Pirelli è soltanto l’ultimo episodio della lunga telenovela riguardante i rapporti diplomatici tra Italia e Cina. L’asse Roma-Pechino è costernato di dossier di fuoco. E il futuro della Nuova Via della Seta, a differenza di quanto non si possa pensare, è la punta dell’iceberg.
Con qualche giorno d’anticipo sulla data prefissata del 23 giugno, il governo Meloni ha sciolto le riserve sul caso Pirelli. L’esecutivo ha scelto di ricorrere all’uso del Golden Power per arginare la presunta postura ostile adottata da Sinochem. Si dice, infatti, che il socio di maggioranza cinese del gruppo stia seguendo sempre di più le linee guida del Partito Comunista Cinese. E che, in un futuro non troppo lontano, possa fagocitare l’italianità dell’azienda imponendo la propria strategia e il proprio amministratore delegato.
Dubbi, ricostruzioni e indiscrezioni che rispecchiano il clima geopolitico venutosi a creare tra gli Stati Uniti e la Cina, con l’Italia situata esattamente in mezzo ai due fuochi. Roma, ovviamente, appartiene alla Nato e al club delle democrazie occidentali. Ma, al tempo stesso, vorrebbe (e potrebbe) attivare il proprio bagaglio culturale e diplomatico per sfruttare le occasioni offerte dalla Cina e altri potenziali partner economici.
I dossier più caldi tra Cina e Italia
Il dossier principe si chiama Belt and Road Initiative. Il governo Meloni non sembrerebbe essere intenzionato a rinnovare l’accordo relativo alla Via della Seta, firmato, nel marzo 2018, dall’allora esecutivo giallo-verde di Giuseppe Conte. L’esecutivo ha tempo fino a dicembre di quest’anno, prima che scatti il rinnovo automatico per altri cinque anni. E sta quindi iniziando a muovere le pedine diplomatiche per un’uscita, il più indolore possibile, dall’accordo con la Cina.
Detto del caso Pirelli, salito alla ribalta negli ultimissimi giorni, troviamo altri nodi spinosissimi da maneggiare. Come quello relativo alla presenza, al 35%, del colosso cinese State Grid in Cdp Reti, e cioè la società del gruppo Cassa Depositi e Prestiti che possiede investimenti partecipativi in varie aziende, come Terna, Italgas e Snam. La situazione di Cdp Reti, a ben vedere, è pressoché identica a quella del gruppo Pirelli.
C’è da capire, poi, che fine farà l’accordo annunciato da Xi Jinping nell’incontro con Meloni al G20 di Bali, lo scorso novembre. In quell’occasione, il presidente cinese aveva parlato dell’acquisto di Pechino di 250 aerei Atr entro il 2035. Ricordiamo che questi velivoli (proprietà italo-francese Leonardo ed Airbus) sono prodotti negli stabilimenti di Pomigliano d’Arco, in Campania.
5G e porti
Infine vale la pena menzionare la questione 5G e porti. Per quanto riguarda il 5G, gli Usa hanno più volte chiesto ai partner europei di tenere fuori dalle rispettive reti di quinta generazioni le aziende cinesi, le stesse che Washington ha accusato di spionaggio. Ebbene, la maggior parte dell’infrastruttura 4G italiana – dove sorgerà il 5G – è appannaggio di fornitori cinesi.
Sui porti, in Italia i cinesi sono presenti dal 2016 nel porto di Vado Ligure, in Liguria, con Cosco e Qingdao, entrambe aziende statali cinesi. La prima ha speso 53 milioni per assumere il 40% dello scalo ligure, mentre la seconda 15,5 milioni per il 9,9%.
Durante il governo Conte I, nel 2019, la Cina ha indirettamente ottenuto la concessione demaniale della ex Belleli, una delle aree più grandi del porto di Taranto. Circa 220mila metri quadrati sono finiti al Ferretti Group, controllato a sua volta all’85% dai cinesi di Weichai Group.
Sussistono, inoltre, accordi di cooperazione tra le Autorità portuali di Trieste e Genova con il gruppo cinese cinese China Communications Construction Company.
La scelta di Meloni
Giorgia Meloni è desiderosa di mostrare a Washington la massima fedeltà atlantica. Il rischio è tuttavia quello di generare un contraccolpo indesiderato, compromettendo alcuni dei più ghiotti sbocchi commerciali per le aziende italiane. Sbocchi, va da sé, che saranno occupati al volo da altri governi filo atlantici come Francia e Germania, e come hanno fatto capire Emmanuel Macron e Olaf Scholz.
Meloni ha scelto un’altra strada. Nel tentativo di blindare la propria immagine, e probabilmente guadagnare punti tra i corridoi della Casa Bianca, il premier ha calcato la mano sui principali dossier cinesi. Il punto è che, indipendentemente da come saranno ridefiniti i rapporti Italia-Cina, la leader di Fratelli d’Italia avrebbe potuto ottenere gli stessi risultati evitando una simile sovrapposizione su casi delicatissimi.
Per il futuro della Nuova Via della Seta, anziché citarla in varie interviste e conferenze, avrebbe potuto lasciare che si congelasse da sola. Anche perché, già con il governo Draghi, l’Italia aveva smesso di puntare sull’iniziativa commerciale cinese.
Optando per il silenzio, Meloni avrebbe potuto accontentare tutti: la Cina, ben felice di continuare a sbandierare un Paese del calibro dell’Italia tra gli aderenti al progetto, seppur silente, e gli Usa, presumibilmente soddisfatti del distacco italiano. La questione d’immagine potrebbe quindi costare carissima all’Italia. Anche perché, dall’altro lato, i cinesi devono tutelare la loro, di immagine.