Ricerca sull’Alzheimer? “Il dispositivo della Food and Drug Administration americana indica una direzione”. Non usa mezze parole il professor Alessandro Padovani. Ordinario di Neurologia all’Università degli Studi di Brescia e Direttore dell’Unità Operativa Neurologia nell’Azienda Ospedaliera ospedali Civili di Brescia. Ci sono anche le sue ricerche dietro l’approvazione dello studio di Fase 4 con cui l’autorità regolatoria americana, FDA, ha approvato la domanda di regolamentazione per l’uso di Aducanumab nel trattamento del morbo di Alzheimer. Una notizia che il 7 giugno ha aperto uno spiraglio per clinici, ricercatori, pazienti e famiglie, dopo tanti anni di fallimenti nei trials clinici.
La lezione da imparare? “Il dato vero di tutta queste lunga serie di fallimenti degli studi clinici che dura da vent’anni – risponde Alessandro Padovani a True Pharma – è che i meccanismi che sottendono a molte malattie neurodegenerative sono diversi, complessi e specifici”. Per questo motivo “il miraggio di trovare una pillola magica, un’unica terapia, un unico farmaco, semplicemente non può funzionare. Così come non ha funzionato per la ricerca sul cancro o il trattamento di patologie apparentemente meno complesse come la pressione arteriosa”.
Quindi, che fare? L’autorità statunitense sembra indicare quella che Padovani definisce “una strada percorribile” cioè “contrastare la malattia con un anticorpo monoclonale anti-amiloide per poi attaccare, con altri farmaci e altre terapie, i diversi meccanismi ed elementi fondamentali della patologia”. Partire da una base, per poi raggiungere altri obiettivi. Con un ventaglio di opzioni da costruire nel tempo, sempre più variegato. Per esempio? “Ci sono alcune evidenze che indicano, per specifiche tipologie di pazienti anche nell’ambito della malattia di Alzheimer, che la combinazione di varie terapie possa modificare l’evoluzione clinica, soprattutto se assunte in tempi molto precoci”. Il riferimento è a prodotti combinati nutraceutici ma anche la combinazione di farmaci orfani o altri prodotti che hanno attualmente diverse indicazioni, da quelli antiasmatici, fino ai farmaci ad azione serotoninergica, o alcuni con azione anti-ossidativa. “È evidente – dice Padovani – che ciascuno di questi da solo non è in grado di produrre un’azione ad effetto prolungato ma la loro combinazione potrebbe”. Qual è il problema? Un peccato originale: “Purtroppo molte di queste proposte e suggestioni scontano una convinta evidenza basata sulla sperimentazione, mancano dati su campioni rappresentativi perché non c’è la forza di portare avanti studi di fase 4 con strategie terapeutiche cosiddette non riconosicute”.
A oggi non ci sono infatti “modalità per studiare efficacemente combinazioni di farmaci, ma è tuttavia vero che per quanto riguarda l’Alzheimer la terapia combinata fra inibitori per l’aceticolesterasi associati alla memantina indicano un effetto di rallentamento dell’evoluzione delle malattia in particolare se somministrate in fase molto iniziale. È tutto molto empirico ma si intravede da alcuni numeri”.
Proprio in questi snodi affonda le proprie radici quell’approccio pragmatico, molto anglosassone, che ha caratterizzato la decisione della FDA anche sullo studio di Fase 4 sull’Aducanumab. Un approccio che tuttavia, avverte Padovani, “è sempre più diffuso nell’atteggiamento dei regolatori anche con riguardo alla malattia di Parkinson o alla sclerosi laterale amiotrofica, così come altre condizioni”.
Ecco la lettura che dà il docente e clinico di Brescia del dispositivo, chiarendo meglio il concetto: “L’approvazione va nella direzione di verificare se a distanza di anni effettivamente il trattamento aggredendo l’amiloide porta dei benefici di lungo periodo”. Si tratta di studi che possono essere realizzati dopo l’approvazione in commercio (in alcuni casi anche prima) ma prevedono a prescindere delle rigide regole: somministrazione solo per alcune tipologie di pazienti una volta definiti i confini di questa profilazione e solo in alcuni centri specialistici muniti dei requisiti previsti. È così che si può valutare l’efficacia clinica a distanza di archi temporali elevati. “In Italia questo strumento è stato usato per esempio su alcuni farmaci che hanno cambiato la storia dell’Epatite C”.
“Del resto – aggiunge Padovani – le malattie neurodegenerative sono molto lente e richiedono tempi altrettanto lunghi, perché non è possibile verificare in altre maniere se per esempio aggredire l’amiloide ha un beneficio clinico di lungo periodo”. Così come si pone un problema per l’intero mondo della ricerca, anche extra Alzheimer: “Se si dovessero usare farmaci doppio cieco, magari per 5 anni, per vedere l’effetto clinico è evidente che non basterebbero né centinaia né migliaia di persone da sottoporre ai test. Ne servirebbero decine di migliaia solo per avere degli standard corretti e rischiamo, dopo qualche anno, di non avere soggetti necessari”.
Ora però fra gli addetti ai lavori circola anche un’altra discussione. L’approccio culturalmente – prima ancora che operativamente – pragmatico di Washington verrà replicato anche da Bruxelles e, nel caso, dalle altre capitali europee? Qui si entra nel Dna delle diverse autorità regolatorie. “L’Ema è cambiata molto nel tempo – spiega Padovani con riferimento alla massima autorità europea – e del resto Stati Uniti e Unione Europea ormai condividono percorsi simili”. Ciò tuttavia “non significa che i membri dell’Unione sposino, in tutto o in parte, la filosofia con altrettanta convizione”. L’Italia? “Credo sia vittima di un certo pregiudizio e anche di una serie di cautele legate ad un alibi che è spesso quello della sostenibilità”.