Perché leggere questo articolo? Nel governo Meloni sia la destra sociale tradizionale che la sinistra vede un’eccessiva deriva liberista. Ma potrebbe essere anche effetto di necessità di navigazione in tempi difficili
Il governo Meloni sta mediando, dalla sua nascita, tra le difficoltà del presente e le sfide politiche dell’avvenire. Che spesso devono imporre una dose extra di pragmatismo alla premier e al Ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti. Tanto da spingere, sulla politica economica, a dei compromessi in cui, per ora, sembra aver la peggio la spinta alla promozione di misure legate alla tradizione della destra sociale. A cui, sulla carta, Fratelli d’Italia, l’azionista di maggioranza della coalizione, dovrebbe fare riferimento.
Welfare, lavoro, strategie: poca destra sociale
Ad oggi, la visione di una destra economica non pienamente appiattita sulla retorica neoliberale fa raramente capolino nell’agenda del governo Meloni. Ad esempio, la scelta di rimuovere il reddito di cittadinanza e di sostituirlo con una misura più restrittiva come la carta acquisti erogata dall’esecutivo va nella direzione di uno Stato minimo che, nella filosofia della destra sociale, non è esattamente la priorità.
Parimenti, Meloni e il suo governo spingono sul fronte fiscale e delle politiche del lavoro all’incontro tra maggiore flessibilità sulle assunzioni, con passi indietro sul Decreto Dignità che ali del partito avevano sostenuto, e una spinta sul tema del cuneo fiscale che appare legato a misure dal lato dell’offerta più che della domanda.
In sostanza, la destra sociale propone politiche economiche che ibridino liberalismo e keynesismo. E in quest’ultimo fronte non mancano politiche anti-monopolio, difesa degli investimenti pubblici, spinte all’espansione della domanda aggregata. Ragion per cui Fabio Rampelli e la “minoranza” della destra sociale interna, ad esempio, non hanno chiuso ad affrontare la politica delle opposizioni sul salario minimo. Ma proprio a partire da quest’ultima battaglia si fa spazio la prospettiva che temi della destra sociale siano posti nell’agenda di Fdi al governo. Mediati con la ristrettezza delle risorse e la necessità di mediare tra Fdi e i partner di coalizione.
La destra sociale nel governo Meloni
Meloni ha infatti risposto a Giuseppe Conte e Elly Schlein sul salario minimo aprendo la porta alla valorizzazione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, il Cnel, guidato da Renato Brunetta per la creazione di un’agenda propositiva sul tema. Così facendo, si apre al ruolo dello Stato nella politica dei redditi e nell’affrontare il tema del lavoro povero che già Giano Accame teorizzava nel saggio La destra sociale.
Non finisce qui. La mossa della premier ha aperto la strada a un altro discorso, quello sulla redistribuzione dei redditi tramite la creazione di sistemi di partecipazione agli utili delle imprese da parte dei lavoratori. Tra i maggiori fautori sul tema, il capogruppo europeo di Fdi, Carlo Fidanza, e l’omologo alla Camera, Tommaso Foti, che ha recentemente dichiarato: “È giunto il momento di dare attuazione all’articolo 46 della nostra Costituzione, da sempre disatteso. Esso contempla il diritto – non la facoltà o la possibilità – dei lavoratori a collaborare alla gestione delle imprese. Un principio, quello espresso nella Costituzione Italiana, che affonda le sue radici nella dottrina sociale della Chiesa, a partire dalla Rerum Novarum di Papa Leone XIII”.
Sfide e realtà
Nella manovra di bilancio si potrà capire quanto realisticamente proposte ispirate alla destra sociale possano farsi strada in questo campo. Nel frattempo, Meloni tampona le accuse di chi dice che il suo governo stia precarizzando ancora di più il lavoro, punendo i disagiati e favorendo la crescita delle disuguaglianze a colpi di favoritismi e condoni muovendosi sul fronte della sottrazione alla sinistra di alcuni temi-bandiera. A partire dalla tassazione degli extraprofitti finanziari e della nazionalizzazione di asset come la rete di telecomunicazioni.
Troppo poco, per gli avversari interni al campo della destra post-fascista. A partire da Gianni Alemanno, che da “destra della destra” chiede meno liberalismo, più lotta alle rendite, più Stato nell’economia e meno compromessi con gli alleati di governo. Alemanno accusa Meloni di essere troppo vicino al potere economico-finanziario. In quest’ottica, la sua critica, a ferro di cavallo, si salda con quelle che arrivano da sinistra. Emblematica quella dell’economista progressista Chiara Saraceno, che a Vita.it ha dichiarato che “non c’è neanche un po’ di destra sociale” che “almeno si occupava delle periferie” nell’agenda di governo.
Per Saraceno, Meloni “avendo avuto tanto successo, mi pare si voglia occupare soprattutto dei ceti medi, o meglio, di una certa frazione di essi, quella più alta, come appunto la flat tax indica”. E proprio questo fronte pare quello su cui, paradossalmente, l’agenda di destra sociale e il potenziamento della domanda potrebbero aver massimo successo. Ma tutto dovrà misurarsi con le volontà del capo del governo e con le sfide imposte dai conti, sempre problematici, dello Stato.