Perché questo articolo dovrebbe interessarti? In una fase come quella attuale, contraddistinta da un’emergenza senza precedenti sul fronte dell’immigrazione, molti vorrebbero rispolverare le ricette e l’operato dell’ex ministro dell’Interno Marco Minniti. Ma la sua posizione sembra tutt’altro che maggioritaria all’interno dello stesso Pd
Con l’emergenza immigrazione ancora ben presente nel dibattito politico, un nome più di altri negli ultimi giorni è tornato a essere molto in voga. È quello di Marco Minniti, ministro dell’Interno tra il 2016 e il 2018, durante l’esperienza del governo guidato da Paolo Gentiloni. Da esponente del Pd, è stato lui nella primavera del 2017 il primo a introdurre un codice di comportamento per le Ong. Ed è stato sempre lui a siglare gli accordi con i libici, intese che in quella particolare fase storica hanno portato a un repentino abbassamento del numero degli sbarchi.
Per questo adesso il nome di Minniti è tornato a circolare. Un suo ex collega di governo, Carlo Calenda, su X/Twitter ha pubblicamente elogiato il suo lavoro: “Magari avercelo un ministro dell’Interno così capace”, ha scritto il leader di Azione. Il diretto interessato, intervistato su La Verità, ha dato ragione a Giorgia Meloni a proposito dell’inopportunità di trasformare l’Italia in un hotspot: “Ha ragione – si legge nelle dichiarazioni di Minniti – e fa bene anche a puntare sul Piano Mattei”. Parole che hanno scatenato non poche reazioni dal Pd. Nel bene e nel male, quando si parla di immigrazione l’operato di Minniti viene spesso tenuto in considerazione. Eppure nel Pd l’ex ministro non sempre è tenuto in grande considerazione. Un paradosso non da poco, spiegato così dal sondaggista Roberto Weber: “La verità è che Minniti – ha dichiarato su TrueNews – non ha mai avuto un grande ascendente sulla leadership del partito”.
Elogiato ma isolato
L’attivismo di Minniti durante la fase emergenziale del 2017, viene evidentemente visto come un metodo efficace da chi osserva da vicino l’attuale momento di difficoltà sul fronte migratorio. Calenda non è stato l’unico a lanciare elogi verso l’ex ministro. L’impressione è che l’esponente del Pd venga visto, da una certa parte dell’opposizione, come l’unico in grado di coniugare le istanze provenienti da sinistra con un certo “pragmatismo” imposto dall’emergenza.
Eppure la “ricetta Minniti” non sembra essere tenuta in grande considerazione dal suo stesso partito. Al contrario, il Pd si è negli anni messo di traverso sul rinnovo del memorandum con la Libia firmato nel 2017. La sinistra dem non vede di buon occhio sia quelle intese che l’ideazione del codice delle Ong.
Ma non è solo questo a ridimensionare l’influenza dell’ex ministro all’interno del Pd. “Occorre considerare – ha dichiarato ai nostri microfoni Roberto Weber – che Minniti non ha mai avuto un grande ascendente verso la leadership del partito. Lui viene percepito al massimo come un buon tecnico, uno che nel suo campo sa come muoversi e sa come lavorare. Ma non certo come un papabile leader”. Da qui dunque un certo confinamento di Minniti a ruoli non certo di primissimo piano nel partito, nonostante il suo nome venga preso in considerazione su una tematica, quale quella migratoria, tanto importante quanto sentita.
L’immigrazione non sposta gli attuali equilibri
C’è poi un altro discorso da tenere sotto stretta considerazione. Difficilmente cioè il Pd aspira a spostare il consenso puntando su temi relativi all’immigrazione. “Anche perché – ha proseguito Weber – nonostante si assista a un significativo calo della popolarità del governo, questo non sta coincidendo né con un calo di Fratelli d’Italia e né con un recupero del Pd”. Segno di come, almeno per il momento, l’attuale emergenza migratoria a livello politico non sta spostando grandi consensi.
“Peraltro – ha concluso Weber – quando ha agito Minniti la situazione era diversa. C’era un contesto anche internazionale diverso”. E dunque, probabilmente, dal Viminale avrebbe potuto agire in modo non così distante dal modus operandi dell’attuale governo.
Il contesto migratorio durante l’era Minniti
Marco Minniti ha preso in mano il Viminale in una fase molto critica sul fronte immigrazione. Era il dicembre del 2016, dopo la sconfitta al referendum costituzionale a Palazzo Chigi Matteo Renzi ha passato il testimone a Paolo Gentiloni. Quest’ultimo ha per l’appunto nominato Minniti quale nuovo ministro dell’Interno, al posto di Angelino Alfano rimasto al governo ma transitato alla Farnesina. Il 2016 è stato uno degli anni più critici per quanto riguarda gli sbarchi lungo le nostre coste. I problemi maggiori provenivano soprattutto dalla Libia, sempre più nel caos e sempre soggetta alla frammentazione tipica del post Gheddafi.
Sono stati centinaia i barconi partiti dalla Tripolitania, con il flusso migratorio che è arrivato a registrare in Italia oltre centoventimila persone sbarcate. Prima del biennio 2022/2023, è stato proprio il 2016 l’anno con più arrivi irregolari. Il 2017 era partito ancora peggio, con altri record di sbarchi infranti e sforati.
È in questo periodo che iniziava a sorgere, sotto il profilo politico, il problema delle Ong. Gran parte delle navi umanitarie, osservando un ridimensionamento degli sbarchi lungo la rotta del Mediterraneo orientale che riguardava l’Egeo, si è diretta proprio nel cuore del Canale di Sicilia. A destra tali movimenti sono stati visti subito con sospetto, a sinistra si è invece parlato di navi che hanno il merito di salvare vite umane. La posizione di Minniti è stata in qualche modo “mediana”: dal Viminale non ha negato la legittimità politica e umanitaria dell’operato delle Ong, ma ha posto in essere la questione di una regolamentazione della loro azione. È nata così nei primi mesi del 2017 il primo codice per le Ong, elemento che ha messo spesso Minniti in contrasto con le correnti più a sinistra del Pd.
Gli accordi con i libici del 2017
Ma l’azione politicamente più nota di Minniti al Viminale, ha riguardato le intese con Tripoli. Un’azione difficile sia per la complessità del contesto libico e sia perché il titolare dell’Interno in quel caso ha agito anche da ministro degli Esteri. È stato infatti Minniti l’artefice degli accordi sia con il governo di Fayez Al Sarraj, l’allora premier della Libia, e sia con altre forze locali e con le tribù del sud del Paese nordafricano.
Due i punti nevralgici di quelle intese: da un lato fermare i nuovi ingressi verso la Libia e dall’altro dare ai libici i mezzi necessari per bloccare le partenze dalle coste attorno Tripoli. Gli accordi hanno poi portato alla nascita del famigerato “memorandum” tra Italia e Libia. Un documento in cui, in poche parole, Roma garantisce soldi, mezzi e addestramento alla marina libica e Tripoli in cambio promette un maggiore pattugliamento. Per i sostenitori del memorandum, l’accordo costituisce una pietra miliare della lotta all’immigrazione. Per i detrattori, al contrario, l’intesa altro non rappresenta che uno stanziamento di soldi destinato a finire nelle tasche di miliziani e trafficanti per mantenere in Libia i migranti. Ad ogni modo, dal luglio 2017 il numero di sbarchi ha iniziato drasticamente a scendere senza mai raggiungere, nei successivi cinque anni, i livelli di quel periodo.