Perché leggere questo articolo? Maria Maranò, membro della Segreteria Nazionale di Legambiente boccia i capitani coraggiosi e le loro promesse a vuoto. Ma resta possibilista sull’Ilva: “Servono punti fermi perché l’acciaieria possa continuare a produrre”
Legambiente non è contro l’ormai ex Ilva, ma per una gestione politica accurata del sito di Taranto. “Dal nostro punto di vista a noi interessa che siano messi dei punti fermi perché l’acciaieria possa continuare a produrre”, dice a True-News Maria Maranò, membro della Segreteria Nazionale di Legambiente di cui è responsabile Ambiente e Lavoro, circa i guai dell’acciaieria.
Legambiente “tifa” acciaio
Tra meno di una settimana, l’8 novembre, il Tar della Lombardia dovrà decidere se sospendere definitivamente o meno l’erogazione di gas da parte di Snam all’acciaieria più grande d’Italia. Una data in cui si deciderà il futuro di un impianto oggi compartecipato da Invitalia e Arcelor-Mittal, colosso franco-indiano, presieduto dall’ex boiardo Franco Bernabé e guidato da Lucia Morselli, attuale amministratore delegato, gravato da oltre 600 milioni di bollette non pagate a Snam, Eni e Enel.
Legambiente si batte, in quest’ottica, per il rilancio del sito nel quadro della sostenibilità dello sviluppo. “Noi ambientalisti sappiamo che quell’acciaio è importante sia per la quantità prodotta primaria ma anche per stabilizzare il mercato secondaria che utilizza i rottami”, dice Maranò, aggiungendo che “l’unica acciaieria a ciclo integrale, con movimentazione del carbone e dei minerali ferrosi, è l’unico vero impianto italiano, ma anche la più inquinante”. “Vogliamo che l’acciaieria rimanga a Taranto per questioni occupazionali, ma ad alcune condizioni. Ovvero la risoluzione di un’annosa questione che si è aperta nel 2012, il 26 luglio per la precisione, quando ci fu il sequestro senza facoltà d’uso dell’area a caldo da parte della magistratura tarantina”.
Il flop dei capitani coraggiosi
Già da allora si iniziò a parlare di piano industriale per il rilancio dell’impianto: “Sono passati undici anni e non c’è alcun piano, niente di quello che era stato detto, e dodici decreti dopo in cui si prometteva il rilancio non c’è nulla. Abbiamo assistito a undici anni di promesse a vuoto”, affonda Maranò. Anni di “capitani coraggiosi” non hanno prodotto nulla: “La classe dirigente politica e economica che si è occupata dell’ex Ilva dichiarava che con le sue azioni voleva salvare economia, ambiente, salute”.
“Non siamo riusciti a salvaguardare nulla in nessuna gestione – prosegue Maranò. ivi compresa quella orientata al rilancio economico di Franco Bernabé nominato da Mario Draghi: per citare solo un dato, nel 2022 su 8.200 dipendenti non collocati in amministrazione straordinaria ben 2.500 sono stati cassintegrati”. I sindacati scioperano e Legambiente chiede chiarezza: “Se vogliamo salvaguardare anche il lavoro, dobbiamo partire dalla salvaguardia della salute. L’ex Ilva non può continuare a produrre morti e malati”.
Legambiente e la sfida di coniugare lavoro e salute
Come coniugare salute e lavoro? Maranò è molto chiara: “Noi stiamo chiedendo una valutazione sanitaria in modo che si dica scientificamente quanto acciaio è possibile produrre senza compromettere la salute degli abitanti, oltre che dei lavoratori, di Taranto. Dal Ministero della Sanità non abbiamo avuto risposta fino ad ora”. Inoltre, gli impianti sono vecchi, “c’è anche un problema di manutenzione carente e la questione sicurezza è fondamentale. Servirebbe elaborare un piano di economia industriale. La prospettiva di nazionalizzazione non è da noi preferita automaticamente rispetto al privato: basto che si facciano le cose”. Del resto, “dopo la nomina di Bernabé abbiamo osservato speranzosi, chiedendo la valutazione d’impatto sanitario e un ragionamento industriale fondato su un presupposto: se vogliamo dare futuro, lavoriamo sul tema della decarbonizzazione”.
Marano ricorda che “ci sono esempi in Europa che consentono di imparare a produrre acciaio con impianti a idrogeno verde” e il futuro dell’ex Ilva può passare per la scelta di continuare a produrre acciaio adattando la strategia ai tempi che corrono. Appare, a suo avviso, “inutile pensare di ricostruire l’altoforno più grande d’Europa che funziona a carbone: andiamo direttamente per l’impianto di pre-ridotto che salta la fase a caldo, predisponendolo per il funzionamento a idrogeno prodotto da rinnovabili. Serve una filiera che unisca la bonifica all’inserimento di ex Ilva in un sistema di rinnovabili e politica industriale per la transizione energetica” in cui anche l’acciaio può essere rimesso in circolo.
Governo in silenzio?
Chi non sta ragionando attivamente con le parti sociali è il governo. Maranò boccia sia Draghi che Meloni: “A malapena gli ultimi due governi hanno sentito i sindacati, figuriamoci se sentono le associazioni”, sottolinea lamentando l’assenza di un’interlocuzione e sottolineando che “abbiamo avuto solo interlocuzione col Parlamento“. Messi in difficoltà su diversi fronti, dunque, i decisori di Taranto sembrano nel pallone. Ma Legambiente, nota Maranò, vuole proporre soluzioni: “Per il 17 novembre stiamo organizzando un convegno che dedicheremo alla decarbonizzazione della siderurgia, con esperienze europee che partono anche da Arcelor-Mittal, azionista dell’impianto, parlando anche dall’importanza del sistema per il lavoro e della creazione di una filiera decarbonizzata”. Nel futuro di Taranto, anche gli ambientalisti vedono l’acciaio. E questa è una notizia. Ma sul futuro dell’ex Ilva siamo certi si discuterà ancora molto a lungo. Specie se l’8 novembre calerà la cortina del Tar sulle forniture di gas.