Perché leggere questo articolo: La guerra tra Israele e Palestina è già la più letale degli ultimi trent’anni per i giornalisti. Sono almeno 42 i reporter caduti. Un appello di seicento firme italiane chiede più protezione
La guerra tra Israele e Hamas e la risposta di Tel Aviv all’aggressione di Hamas del 7 ottobre scorso hanno avuto sinora nei giornalisti un bersaglio di molte operazioni militari o del fuoco incrociato tra le forze armate dello Stato ebraico e i militanti islamisti. Il Committee to Protect Journalism (Cpj), un’organizzazione non governativa che dal 1992 raccoglie dati sulle morti di reporter in zona di guerra, ha comunicato che in poco più di un mese di conflitto sono già 42 i giornalisti e gli operatori dei media uccisi nelle operazioni. Un numero più che doppio rispetto ai 17 morti in un anno e mezzo di guerra in Ucraina.
Il massacro dei giornalisti a Gaza e in Israele
In un conflitto che ha già causato 1.200 morti israeliani e oltre 11mila vittime palestinesi, la problematica della stampa messa nel mirino o incapacitata a svolgere il suo ruolo in libertà pone drammatici quesiti riguardo la libertà d’informazione nella guerra in corso. Le Forze di Difesa Israeliane (Idf) hanno dopo l’inizio dell’operazione militare dichiarato alle agenzie di stampa Reuters e Agence France Press di non poter garantire in alcun modo la tutela dei reporter sul campo. Tant’è che, come ricordato su queste colonne la narrazione e la propaganda passano attraverso canali assai eterodossi e questa è una guerra che raccontano in prima persona coloro che sono parti in causa, dagli influencer palestinesi ai soldati israeliani, su media come TikTok.
Caduti su entrambi i fronti
Sono morti giornalisti israeliani e palestinesi e non solo. Il primo a cadere Shai Regev, del media israeliano Tmi, uno dei sei giornalisti morti tra il 7 e l’8 ottobre durante gli attacchi di Hamas. Lo stesso giorno è morto anche Yaniv Zohar, un fotografo israeliano che lavorava per il quotidiano israeliano in lingua ebraica Israel Hayom, ucciso durante un attacco di Hamas al Kibbutz Nahal Oz, dove risiedeva. Israel Hayom e Israel National News hanno riferito che anche sua moglie e le sue due figlie sono morte nell’attacco terroristico.
Poi è iniziato il massacro dei giornalisti dei media palestinesi e dei reporter inviati a Gaza. Schiacciati tra il crescendo dei bombardamenti delle Idf, i rischi legati ai lanci falliti di missili di Hamas e, dopo l’attacco di terra, il fuoco incrociato tra i contendenti. Nove morti li piange il gruppo Al-Aqsa Tv, vicino ai governanti di Gaza. Ma cade anche Roshdi Sarraj, co-fondatore di Ain Media, una società palestinese specializzata in servizi mediatici professionali, ucciso da uno strike israeliano il 22 ottobre. Il 25 ottobre Salma Mkhaimer, una giornalista freelance, è stata uccisa insieme a suo figlio in un attacco aereo israeliano nella città di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, vicino al confine con l’Egitto.
L’elenco potrebbe continuare e oltre a 41 morti tra Israele e Striscia di Gaza si deve aggiungere quella di Issam Abdallah, corrispondente di Reuters dal Libano colpito dall’artiglieria israeliana che scambiava colpi con Hezbollah il 13 ottobre scorso. Questi casi insegnano che raccontare la guerra tra Israele e Hamas sta diventando sempre più drammaticamente difficile per i reporter. Un gruppo di corrispondenti italiani ha avviato, nei giorni scorsi, una campagna di sensibilizzazione a favore della libertà d’espressione a Gaza e nel conflitto che ha preso la forma di una petizione firmata per ora da oltre 600 professionisti.
Giornalisti nel mirino
Da Pablo Trincia a Selvaggia Lucarelli, passando per il reporter di guerra Claudio Locatelli, molti i firmatari dell’appello alla protezione dei giornalisti in cui si legge: “Il continuo blocco delle telecomunicazioni, i bombardamenti di sedi delle testate in loco e il blocco dell’ingresso della stampa straniera e indipendente, se non limitatamente con l’Idf, è un attacco all’accesso all’informazione” che va di pari passo con il bersaglio posto da Hamas sui reporter israeliani negli attacchi del 7 ottobre.
“Come giornaliste, giornalisti, video e fotoreporter siamo sconvolti dal massacro dei nostri colleghi, delle nostre colleghe e delle loro famiglie da parte dell’esercito israeliano. Siamo al fianco dei nostri colleghi e delle nostre colleghe di Gaza. Senza di loro, molti degli orrori sul campo rimarrebbero invisibili”, scrivono i firmatari dell’appello. Appare giusto ricordare come questa guerra abbia prodotto, su entrambi i fronti, un attacco alla stampa che non ha precedenti nella storia dei conflitti contemporanei. E che nell’opinione pubblica di Paesi liberi non può non scatenare un moto di attenzione, specie tra gli operatori e i professionisti di un sistema in cui, oggi più che mai, essere sul campo conta per dar voce alla verità. O avvicinarsi il più possibile ad essa.