Perché leggere questo articolo: Alfredo Mantici, veterano dei servizi segreti italiani, è morto a 73 anni. Lo si ricorderà come un maestro per la comprensione dei fenomeni globali e del ruolo tra intelligence e fattore umano.
Quando muore un maestro è come se si perdesse una parte di sé. E per chi scrive Alfredo Mantici, scomparso ieri a 73 anni per un arresto cardiaco, era una delle poche persone che si potesse definire un maestro. Di studi, di visione strategica, di metodo, soprattutto di umiltà. Quando lo si incontrava, nelle strade del Lungotevere di Roma ove amava passeggiare e sedersi ai caffé, era sempre una lezione. Si poteva parlare delle logiche della pace e della guerra, dei servizi segreti o della cucina romana, e su ogni tema l’ex direttore del Dipartimento Analisi del Sisde, il servizio segreto italiano che fu protagonista della lotta al terrorismo, sapeva offrire una visione illuminante e a tutto campo.
Mantici era ed è stato fino all’ultimo un uomo di intelligence. Dalla laurea in Medicina era passato all’Accademia Navale di Livorno. Nel 1979 il grande salto verso i servizi segreti. Il suo motto rimase sempre quello del servizio “civile” in cui aveva militato per decenni: Per aspera ad veritatem. Perché la verità, amava ripetere nei suoi libri e nelle sue conferenze, è una scala di grigi, non una questione di nette divisioni tra bianco e nero. E spesso, nel mondo dell’intelligence, la sfida più importante è capire quale tonalità sia la più funzionale alla tutela dell’interesse pubblico.
Un maestro dello studio di servizi segreti
Questo Mantici lo ripeteva nel suo ultimo libro, Spie Atomiche, dedicato agli uomini di intelligence che diedero a Stalin e all’Unione Sovietica l’assist decisivo per ottenere l’arma nucleare rubando segreti a Usa e Regno Unito. Mantici, fedele alle logiche dello Stato e all’appartenenza di Roma all’Alleanza Atlantica, tra le righe faceva intendere che queste spie, “traditori” in casa, hanno forse più di tutti regalato al mondo la pace. Aprendo la porta a quella parità atomica che ha fondato l’equilibro tra potenze dalla Guerra Fredda a oggi.
Questo era Mantici: uno scienziato della complessità. Uno studioso delle logiche che guidavano i processi decisionali degli apparati e dei loro rivali, da lui approfonditi al Sisde negli uffici di Via Lanza. In una carriera graduale e continua: negli Anni Ottanta come Direttore della Sezione Analisi e Studi e poi come Vicedirettore e Direttore della Divisione stessa. È stato anche Vicedirettore della Divisione Relazioni Estere. Ha poi diretto le Divisioni Contro-Minaccia Diversificata e Contro-Minaccia Economica e Industriale, contribuendo all’avanzamento italiano nelle competenze di settore, dal 1997 al 2000, anno in cui è stato nominato a capo della Scuola di addestramento del Servizio. Nel 2002 è stato nominato Capo del Dipartimento Analisi Strategica e dal 2004 al 2007 ha ricoperto anche l’incarico di Direttore responsabile della rivista del Servizio, “Gnosis”. Dandole l’input per diventare un polmone culturale di assoluto prestigio.
Per “Duccio”, come lo chiamavano gli amici di sempre (e chi scrive ricorda di aver sempre, rispettosamente, usato il “Lei” per rivolgerglisi), l’intelligence non era un luogo dello Stato, era un metodo da applicare all’approccio ai fenomeni complessi. Una costante per leggere le dinamiche umane. Perché, sottolineava spesso, “non c’è intelligence senza comprensione dei fenomeni. Una facoltà che spetta all’uomo e alla sua forza razionale”. Per Mantici, nell’intelligence, il fattore umano era tutto. Causa dei fenomeni positivi, dei grandi risultati in materia di difesa della sicurezza pubblica, come dei massimi fallimenti.
L’intelligence secondo Mantici: un fatto umano
Si ricorda qui un aneddoto importante che Mantici riportava per spiegare il fenomeno dei fallimenti d’intelligence come possibili rischi per la collettività. Il “Professore” per antonomasia nell’intelligence nazionale era solito citare un fatto risalente a pochi mesi prima dell’11 settembre 2001, quando in una stazione Fbi di Tampa, Florida, un’esperta agente aveva scoperto un gruppo di arabi che frequentava lezioni di volo ma sembrava poco interessato ai corsi di atterraggio.
Mantici ricordava spesso il contenuto della conversazione che aveva saputo esserci stata tra la poliziotta in questione e il suo superiore, il quale interrogandosi sull’allarme dell’agente si limitò a domandare: “Dov’è il reato in questo atteggiamento?”. La donna, ricordava Mantici, “aveva pensato con metodo d’intelligence pur non facendo parte di un servizio, il suo superiore no. Tutto questo mentre le agenzie americane non si scambiavano in maniera adeguata informazioni e notizie”.
Morale della favola? “L’intelligence è innanzitutto un fatto umano”. Questo il grande insegnamento di chi, nella vita, dell’umanità e dell’umiltà faceva la Stella Polare. Un maestro che – a chi scrive – mancherà molto. Così come mancherà a chi studia il mondo dei servizi. Doppio perfetto delle nostre società, fondate sulla complessità del rapporto tra realtà e immagine che di essa si da. In cui la differenza la fa l’informazione e la capacità di governarla. Dunque, in fin dei conti, la razionalità umana. Vera protagonista motrice dei fenomeni sociali.