Perché leggere questo articolo? L’informazione è oggi più che mai un campo di battaglia, stretta tra propaganda e tentativi di condizionamento delle grandi potenze. Per capire come navigare in un mondo tanto complesso dialoghiamo con Francesco Petronella, autore del saggio “Atlante delle bugie”.
Propaganda, disinformazione e uso (anzi abuso) politico delle notizie e delle fonti che permettono di conoscere gli scenari più complessi sul piano globale sono una costante nella storia umana. Ma mai come oggi l’iperconnessione degli scenari globali, le nuove tecnologie e la fragilità del pubblico di fronte ai fenomeni di condizionamento sono un fattore potenzialmente dirompente nell’orientare le masse nel loro approccio ai grandi fenomeni globali. Francesco Petronella, giornalista freelance specializzato in politica estera e collaboratore dell’Ispi, sul tema ha scritto un libro, Atlante delle bugie –
L’Infowar contraddistingue, sempre più, le dialettiche attuali legate ai conflitti. Quali sono i rischi con cui si interfaccia chi opera nello studio dei contesti internazionali?
Io penso che il primo nemico da tenere a bada non sia tanto l’intenzione di chi diffonde notizie di parte o di propaganda, quanto la predisposizione di ognuno di noi a recepirle. In contesti complessi come quelli di guerra, ad esempio l’ultima escalation in Israele e Palestina, c’è una naturale tendenza del pubblico a schierarsi da una o dall’altra parte. Ne consegue che, in relazione a questo bias di partenza, un lettore-utente sarà più incline a recepire e persino a cercare i messaggi di una delle due parti in causa. La logica degli algoritmi, poi, rischia di portare questo meccanismo al parossismo, proponendo contenuti sul web che confermano e in un certo senso confortano il nostro punto di vista iniziale.
Le guerre di Ucraina e Gaza mostrano un uso massiccio dell’infowar. In che misura le narrazioni sulla guerra sono intossicate dalla propaganda?
In misura considerevole e anche molto stratificata. Ogni messaggio, infatti, si rivolge solitamente a tipologie diverse di pubblico: gli osservatori internazionali (alleati o ostili che siano) ma anche – e spesso in misura maggiore – all’opinione pubblica interna. Vale un po’ il proverbio che dice “parlare a nuora perché suocera intenda”. L’importante, per chi legge i fatti internazionali, è avere la giusta dose di consapevolezza sul fatto che la propaganda esiste e imparare, di conseguenza, a leggere tra le righe il vero succo delle questioni. Ad esempio, in riferimento alla crisi in Medio Oriente, dall’inizio della guerra mi sto affannando a raccomandare sempre di andare oltre la patina di propaganda che contraddistingue soprattutto, ma non solo, le dichiarazioni dei politici.
Ad esempio?
Pensiamo all’Iran, i cui leader non mancano mai di lanciare strali incendiari contro Israele ma – al contempo – negano ogni coinvolgimento diretto nell’azione di Hamas. Questo cosa ci dice? Da un lato Teheran rivendica e difende il suo ruolo di guida dell’asse anti-Israele, ma dall’altro non vuole (per il momento) un allargamento del conflitto vero e proprio.
Una delle novità delle guerre dell’ultimo biennio è l’esplosione di narrazioni in prima persona dei conflitti di coloro che ne sono vittime o parti in causa. Dagli influencer ucraini ai tiktoker palestinesi, abbiamo assistito alla produzione di fonti assai eterodosse. Quanto questo si presta a manipolazioni e strumentalizzazioni?
Questo è un tema gigantesco. Già nello scorso decennio si è parlato molto di citizen journalism, mediattivismo e in generale di giornalismo partecipativo. In conflitti sanguinosi come quello in Siria sono spesso stati semplici civili a documentare e a divulgare sui social alcuni dei momenti più cruenti della guerra. Oggi, con l’affermarsi di social che prediligono i volti e in generale il contenuto in video piuttosto che la parola scritta, questa tendenza è giunta all’apice. Personalmente non sono un grande amante di questo formato, perché spesso fa perdere di vista l’aspetto più ‘politico’ dei conflitti. Potrà sembrare cinico, ma per chi analizza l’attualità internazionale è un punto cruciale. La sovra-esposizione della violenza, che serve ovviamente a dipingerne l’autore in una luce estremamente negativa, secondo me crea anche assuefazione e, dopo una certa dose di tempo, persino la noia.
Come evolve il ruolo del giornalista in questo contesto sempre più caotico?
In fondo questa è una delle domande su cui si basa il mio libro. Quando si parla di notizie e di Esteri è facile collegare il tema ai corrispondenti e agli inviati speciali, che seguono i fatti in presa diretta. Invece, come cerco di spiegare nel mio libro, gran parte dell’informazione quotidiana sull’attualità internazionale viene da giornalisti di desk, che restano nel proprio paese. Il loro compito, il nostro compito, è quello di saper vagliare con attenzione le fonti, eventualmente anche riportando quelle di parte e di propaganda, ma sempre con i dovuti caveat e distinguo.
Anni fa si parlava di “era della post-verità”: quanto questa espressione ha ancora senso oggigiorno?
Diciamo che è invecchiata abbastanza bene, anche se oggi sembra troppo legata al periodo di Trump e del “populismo” relativo al triennio 2016-2018. Oggi siamo in una fase più fluida, anche perché come dicevo c’è una battaglia in corso tra i vecchi social – quelli basati sui contenuti scritti e visivi – ai nuovi che invece prediligono solo l’aspetto visuale. Sembra una questione marginale, ma dall’esito di questo scontro (scontato, ma non troppo) dipenderanno molte cose.
In definitiva, cosa può fare il sistema informativo per gestire questi cambiamenti di paradigma epocale?
Spezzare il conflitto tra pubblico e lettori. Sono anni ormai che la fiducia degli utenti nei media cala su base regolare e a farne le spese sono maggiormente i giornali (online e soprattutto cartacei). Parallelamente, i giornali si vedono “costretti” a ricorrere a strategie di clickbait – titoli sensazionalistici, allusioni, etc. – che portano a quello stesso calo di qualità che innesca la sfiducia dei lettori. Insomma: il classico caso del cane che si morde la coda. Il sistema informativo dovrebbe cercare di non arrendersi a questa logica, proponendo contenuti in grado di “ingolosire” il pubblico tramite la qualità.
Sul fronte dell’educazione del grande pubblico, fruitore di social più che di informazione, che strategie proponi per rompere la gabbia dei sistemi di condizionamento?
Quello che dicevo all’inizio: bisogna educare a capire quali sono i propri bias di partenza, per poi accettarli e infine aprirsi alle informazioni che li contestano, anziché confortarli. Sembrano paroloni, ma in realtà è un meccanismo piuttosto semplice: se navigando sul web, dove spesso le notizie mi piovono letteralmente in testa senza che io abbia fatto nulla per cercarle, trovo solo contenuti affini a ciò che io penso di un determinato argomento, vuol dire che qualcosa sta andando storto.