Perché questo articolo potrebbe interessarti? Il 20 dicembre il governo incontrerà i sindacati, il 22 invece ci sarà l’assemblea degli azionisti della società che detiene il controllo dell’ex Ilva. Sono giorni cruciali per le sorti dell’impianto di Taranto, su cui gravano anni di scelte non azzeccate e di mancati investimenti: “In Puglia – sostiene su TrueNews l’esponente di Legambiente Maria Maranò – si sconta una mancata chiara politica industriale dei vari ultimi governi”.
Si avvicina il momento della verità per l’ex Ilva di Taranto. Sono due le date, entrambe a ridosso di Natale, che i lavoratori dell’acciaieria pugliese hanno fissato in rosso sul calendario. Si inizia giorno 20 dicembre, con la convocazione del tavolo tra il governo e i sindacati. Due giorni dopo invece sarà la volta dell’assemblea dei soci di Acciaierie Italia, la società proprietaria dell’impianto di Taranto. Ed è in questa sede che si capirà molto del futuro dello stabilimento.
Ma non c’è affatto ottimismo in vista dei due incontri. L’impressione è che serva una vera e propria corsa contro il tempo per salvare l’ex Ilva. Una corsa che forse nessuno può o vuole fare. Di certo, non hanno intenzione di compierla i vertici di ArcelorMittal, colosso franco-indiano che detiene la maggioranza di Acciaierie Italia con il 63%. La società ha già fatto sapere di non voler mettere sul piatto i soldi per la ricapitalizzazione e il rilancio degli investimenti. L’altro socio è lo Stato, tramite Invitalia. I sindacati, in vista dell’incontro con il governo, hanno auspicato la trasformazione dell’attore pubblico della società in azionista di maggioranza.
Il delicato incontro del 20 dicembre
Mercoledì prossimo la prima data X. A Palazzo Chigi, governo e parti sociali discuteranno sulle prossime azioni sull’ex Ilva. Il tutto ovviamente in vista dell’assemblea dei soci del prossimo 22 dicembre. Invitati nella sede della presidenza del consiglio, sono stati Cgil, Cisl e Uil. I sindacati saranno presenti con le delegazioni delle rispettive sezioni metalmeccaniche, ossia Fiom, Fim e Uilm.
Da parte loro i sindacalisti sembrano avere le idee molto chiare. A esprimerle è stato, a margine di una recente conferenza stampa, il segretario della Fiom Michele De Palma: “Serve una risposta che offra garanzie rispetto alla salita del socio pubblico dentro ArcelorMittal, quindi dentro Acciaierie – si legge nelle due dichiarazioni – Il governo deve prendere in mano la gestione dell’azienda e si devono dare garanzie per i lavoratori e le produzioni. Altrimenti, noi non andremo via”.
In poche parole, davanti ai tentennamenti del socio privato, i sindacati chiedono al governo se non una nazionalizzazione dell’azienda quantomeno il passaggio in maggioranza del socio pubblico. Ma né da Palazzo Chigi e né dalla sede del ministero delle attività produttive sono emerse indiscrezioni in tal senso. Il rischio di uno strappo quindi, nel pieno del confronto di giorno 20, non è così lontano. Per i sindacati l’intervento diretto del governo è l’unica strada percorribile. Aspettare altre cordate o altre trattative potrebbe, secondo la ricostruzione emersa dai vari segretari confederali, soltanto far perdere tempo prezioso.
Cosa rischia l’ex Ilva
In effetti, occorre dire che di tempo l’ex Ilva sembra averne molto poco. L’impianto è già in crisi da diversi anni e le premesse per il 2024 non sono delle più rosee. La quantità di acciaio uscito da Taranto è stata circa di tre tonnellate negli ultimi 12 mesi, cifra che potrebbe ulteriormente scendere a 1.7 non appena rimarrà acceso solo uno degli attuali tre altiforni operativi.
In poche parole, l’ex Ilva è una struttura agonizzante. Sono stati pochi gli investimenti fatti, specialmente dal 2012 in poi, anno del sequestro dei forni da parte dei giudici. Da allora, solo rimpalli di responsabilità, passaggi di mano da proprietà a proprietà e da governo a governo, senza però nulla di concreto. L’accordo del 2018, quello che ha portato l’acciaieria nelle mani di ArcelorMittal, si è rivelato un fallimento con la multinazionale che già nel 2019 premeva per esercitare il diritto di recesso dopo lo stop allo scudo penale voluto dall’allora governo Conte.
Maria Maranò è un membro della segreteria nazionale di Legambiente, ma è soprattutto tarantina di nascita e la questione la avverte particolarmente. Raggiunta da TrueNews, ha riportato ai nostri microfoni le sue impressioni sulle ultime vicende relative all’ex Ilva: “Guardi – ha dichiarato – se mi chiede un parere personale sui prossimi incontri, è difficile risponderle. Non so davvero cosa accadrà. Da ambientalista però, posso dirle cosa sta accadendo oggi dentro l’acciaieria”.
L’esponente di Legambiente si dice molto preoccupata per le condizioni dell’impianto: “Chiaramente se non si investe – prosegue – la struttura va a perdersi, si può dire che è un corpo morente. E questo crea problemi sia ambientali che sociali”. Alla domanda se esiste un futuro per l’ex Ilva, Maranò sembra avere le idee piuttosto nette: “Certo che c’è, ma servono investimenti piuttosto importanti”.
“Questo non lo dico io – ha proseguito – lo affermano tutti gli esperti del settore e del mercato della siderurgia. Taranto può continuare a produrre e a servire per il fabbisogno nazionale di acciaio, ma a patto di alcuni passaggi importanti. A partire dalla decarbonizzazione, perché l’ex Ilva è l’unica struttura del suo genere ancora a ciclo integrale. Il mercato chiede sempre di più acciaio pulito, quindi le condizioni del mercato e la necessità di attuare una transizione verso lr rinnovabili impongono copiosi investimenti se si vuole vedere l’ex Ilva ancora aperta”.
La mancanza di una seria politica industriale
E qui si torna al punto iniziale, lo stesso promosso dai sindacati alla vigilia degli incontri con il governo: chi deve mettere i soldi? Chi cioè si farà carico degli investimenti necessari per garantire un futuro all’ex Ilva? Secondo Maria Maranò, l’attuale attore privato di Acciaierie Italiane non è affidabile: “L’azienda franco-indiana non ha speso niente e non sembra voler fare qualcosa nemmeno adesso”. La soluzione potrebbe passare dalla ricerca di un nuovo attore privato oppure da ulteriori esborsi di Invitalia: “Questo però non compete a me dirlo, non ho titoli per affermare cosa è meglio a livello aziendale – sottolinea Maranò – ma posso dire che ArcelorMittal non si è rivelata affidabile e mi auguro si tenga conto di questo in futuro”.
Nella sua riflessione, l’esponente di Legambiente si spinge oltre e punta il dito contro la mancanza di una seria politica industriale in Italia da molti anni a questa parte: “Vede – spiega Maranò – io non so nemmeno dire se la scelta di rendere l’ex Ilva un corpo morente sia frutto di una chiara decisione politica o di incapacità. Però, a prescindere, se si prende una strada almeno occorre batterla fino in fondo”.
Vale a dire che se il governo ritiene l’ex Ilva non più strategica per la politica industriale, allora deve predisporre un piano per la dismissione. Altrimenti, deve dare vita a un piano di rilancio: “O l’una o altra – prosegue Maranò – se si chiude, si deve dire cosa fare dell’impianto e parlare di bonifica dell’area. Se si resta aperti, occorre fare copiosi investimenti. Ma siccome nessun governo nell’ultimo decennio ha avuto le idee chiare sulla politica industriale da adottare, alla fine non si decide nulla”.
Con il rischio per la Puglia di ritrovarsi in casa due bombe ad orologeria: una sociale, per la perdita di un importante e vitale indotto lavorativo, e una ambientale per la mancata conversione dell’impianto o la mancata bonifica. Infine, c’è un problema di livello nazionale: con meno capacità produttive in casa, l’Italia rischia nel lungo termine di non poter continuare a essere né l’attuale potenza manifatturiera europea e né l’attuale secondo produttore di acciaio in Europa.