Perché questo articolo potrebbe interessarti? La Stampa ha definito “scuola rossobruna” l’evento organizzato dalla scuola di formazione del Movimento 5 Stelle. Tra i relatori sarà presente anche Marco Tarchi. True-news lo ha intervistato per sapere cosa ne pensa dell’ultima “etichetta” politica ricevuta.
Si intitola Patria e Politica ed è la lectio magistralis della scuola di formazione organizzata dal Movimento 5 Stelle. All’evento, in programma a Roma il prossimo 9 febbraio, saranno presenti tre relatori. Distantissimi l’uno dall’altro per formazione e professione.
L’elenco comprende la filosofa Donatella Di Cesare, l’ex deputato Stefano Fassina, e il politologo Marco Tarchi. Presenti anche l’ex premier Giuseppe Conte, al quale saranno affidate le conclusioni, e Pasquale Tridico, nelle vesti di moderatore.
La Stampa ha dedicato un lungo articolo alla kermesse parlando di “scuola rossobruna“. True-news.it ha intervistato il professor Tarchi per chiedere cosa ne pensa di questa nuova etichetta e della polemica sollevata dal quotidiano.
L’intervista a Marco Tarchi
Prima “Nero”, adesso “Rossobruno”, come scritto da La Stampa. Si è mai riconosciuto in una delle categorie che nel corso della sua carriera le sono state affibbiate?
È curioso che, in un’epoca che a parole esalta la libertà di opinione, predica il pluralismo e canta le lodi del dialogo, a chi non si riconosce nell’ideologia liberale vengano automaticamente applicate etichette squalificative. E che ogni “peccato” venga perdonato a chi in gioventù, e magari anche in età adulta, ha militato nell’ultrasinistra più intollerante e violenta, ma non a chi ha fatto scelte opposte. Io non ho niente da rimproverarmi per il mio passato, e ho esposto sempre pubblicamente le mie idee ed opinioni senza rinchiudermi in categorie o conventicole. Da più di quarant’anni non credo più alla capacità dello spartiacque sinistra/destra di descrivere le linee di conflitto che attraversano il nostro tempo e ho ricercato e accettato il confronto con persone di ogni formazione e provenienza.
L’ultima “etichetta” nasce dalla sua partecipazione alla scuola di formazione del M5S. Basta davvero partecipare ad un evento del genere per essere un “Rossobruno”?
A giudizio dei custodi del politicamente corretto, evidentemente sì.
Ha mai ricevuto etichette simili, in passato, per esser stato invitato o aver partecipato ad eventi culturali e politici?
Quando ho fatto lo stesso, ad esempio, con la scuola di formazione dei giovani del Pd, nessuno ha mosso obiezioni di questo tipo. E già nel 1994 fui invitato a parlare alla Festa nazionale de «L’Unità»: la cosa sollevò curiosità – due articoli sulla terza pagina del «Corriere della sera» –, ma nessuno scandalo. Che ci fu, invece, quando ebbi il primo confronto pubblico con Massimo Cacciari a Firenze il 27 novembre 1982: allora ci fu un diluvio di articoli di stampa, accompagnato da una trasmissione televisiva su RaiTre. Ma si parlava di me come un esponente di quella che allora veniva definita Nuova Destra: definizione inesatta, ma non ingiuriosa.
Perché dal suo punto di vista c’è sempre più spesso la tendenza – se non l’esigenza – di etichettare giornalisti, professori, accademici e professionisti vari?
Perché si pensa che collocare “di qua o di là” questi soggetti serva ad attizzare i sentimenti di appartenenza del pubblico, suscitando simpatie o antipatie istintive, e quindi ad acuirne l’attenzione: in fondo, è un meccanismo di marketing. Che, da quando è entrata in gioco la polemica su egemonia e contro-egemonia culturale, funziona a pieno ritmo.
Abbiamo di recente iniziato ad assistere alla creazione di “liste” e all’ascesa delle etichette in seguito allo scoppio della guerra in Ucraina (penso ai “giornalisti filorussi” o ai professori accusati di essere “pro Putin”). Siamo di fronte ad un fenomeno nuovo o il mondo intellettuale ha già affrontato qualcosa di simile?
Ovviamente io non c’ero, ma credo che nei primi tempi della Guerra fredda sia successo lo stesso, con accuse reciproche di essere “utili idioti” del comunismo o dell’imperialismo americano. Oggi è una parte sola, quella liberale-occidentalista, a stendere liste di proscrizione volte a denunciare chi non è allineato ai suoi dogmi. Lo si sta vedendo anche in relazione alle vicende israelo-palestinesi. Più di vent’anni fa, peraltro, ci fu un altro episodio di maccartismo, avviato in Francia ma con il sostegno di intellettuali e politici progressisti di vari paesi, fra cui in prima linea Umberto Eco e Rossana Rossanda: un manifesto di denuncia di chiunque si prestasse al dialogo con la “nouvelle droite”, a partire dal suo capofila Alain de Benoist. Nel 2019 il fenomeno si è ripetuto in Italia, con una petizione di intellettuali-militanti di ultrasinistra tesa ad impedire che de Benoist venisse a parlare a Milano ad un incontro organizzato dalla Fondazione Feltrinelli. Una brutta pagina di intolleranza e censura.
Dal suo punto di vista com’è il clima intellettuale e culturale in Italia?
Piatto, e per molti aspetti soffocante. Soprattutto da quando si è formato il governo Meloni, una parte consistente del ceto accademico e di quello giornalistico coltiva rancori e ossessioni, rumina vendette e si immagina come l’avanguardia della resistenza ad immaginarie svolte autoritarie. Il che restringe ulteriormente gli spazi di dialogo e criminalizza il dissenso.