Perché leggere questo articolo? La morte di Navalny è una grande tragedia. E deve istruire le nostre democrazie. Un caso Navalny alla occidentale, potenzialmente, esiste. Parliamo di Julian Assange.
Aleksei Navalny è morto e di per sé questa notizia è una tragedia. Lo sarebbe una qualunque morte di un uomo 47enne. A maggior ragione se carcerato. E se per concludere il 47enne carcerato era, en passant, prigioniero politico di un’autocrazia il senso della tragedia si mostra in tutta la sua portata. Navalny è morto per cause formali ancora tutte da chiarire, ma in realtà è stato ucciso lentamente.
L’uccisione a tappe di Navalny
Il detenuto della colonia penale n. 3 dell’Okrug autonomo di Yamalo-Nenets è stato lentamente ucciso in dieci anni di odisse giudiziarie e persecuzioni politiche. Una persecuzione ancor più esecrabile se si pensa che Vladimir Putin e il suo governo hanno usato l’arma legale come strumento di costrizione, financo di lenta e graduale esecuzione.
Dapprima gli arresti del leader nazionalista e liberale alle diverse manifestazioni a Mosca, poi l’escalation delle privazioni: nel 2017 l’aggressione fuori dal suo ufficio nella Fondazione Anti-corruzione che lo privò pressoché totalmente della vista a un occhio. Nel 2020 l’avvelenamento col Novichock, tuttora da chiarire nella sua genesi, che lo costrinse a una lunga fase di cura a Berlino. Al ritorno a Mosca, nuovi arresti e da ultimo il confinamento in Siberia.
Le conseguenze della morte dell’oppositore di Putin
Navalny è morto come un antico prigioniero dei gulag, nell’inclemente spazio russo oltre il Circolo Polare Artico. L’assonanza sarà immediata a livello mediatico. “Com’è ovvio, a prescindere da quanto verrà accertato sulle cause della morte, la scomparsa di Navalny verrà messa in conto a Vladimir Putin e certo contribuirà ad aumentare l’isolamento del presidente russo, sul cui capo già pende il mandato di cattura emesso nel marzo del 2023 dalla Corte penale internazionale”, ha scritto Fulvio Scaglione su InsideOver. In quest’ottica “diventa ancora più difficile, a questo punto, ipotizzare una trattativa che possa concludere la carneficina in Ucraina e che abbia come protagonista lo stesso Putin”.
Valga per Putin quello che vale per Napoleone Bonaparte e l’uccisione del Duca d’Enghien: il trattamento riservato negli anni a Navalny è stato, oltre che un crimine, un gravissimo errore. Un errore che ha mostrato quanto possa essere profondo l’abisso di oscurità in cui sono precipitati gli attuali regimi fondati sull’arbitrio dell’uomo sull’uomo. Il toccante slogan del Washington Post, “Democracy dies in darkness”, adottato nel 2017, si adatta perfettamente al destino di Navalny, ma non solo. La morte di Navalny è una tragedia che deve spingere le democrazie fondate sul rispetto dei valori, inalienabili, dell’individuo a dimostrarsi migliori su questo fronte dei regimi autoritari.
Quel monito al nostro sistema dal caso Navalny
La morre di Navalny deve, in altre parole, ricordarci che anche nei sistemi liberi c’è il rischio di arbitri paragonabili a quelli a cui per fini politici figure come il dissidente russo è stato sottoposto. E che tali arbitri spesso non prendano solo la forma delle prevaricazioni da parte dei tiranni dei nostri tempi. Si prenda il caso di Julian Assange. Il giornalista e fondatore di WikiLeaks il 20 e 21 febbraio affronterà l’udienza all’Alta Corte di Londra che dovrà deliberare la sua estradizione negli Stati Uniti, ove rischia 175 anni di carcere.
Un processo, quello Assange, dove la trazione politica è prevalente. Durante il suo mandato (2016-2022) il relatore Onu sulla Tortura, Nils Meltzer, ha sollevato critiche riguardo alla prossima possibilità di estradizione del giornalista australiano, concentrandosi sullo sviluppo della caccia nei confronti di Assange.
Assange è sotto indagine per aver pubblicato con WikiLeaks centinaia di migliaia di documenti che mettevano in luce le dinamiche interne del potere e degli apparati militari statunitensi. Questi documenti rivelavano presunti crimini di guerra e evidenziavano le criticità nella gestione delle crisi in Afghanistan e Iraq. Tali rivelazioni, anche divulgate da Guardian e New York Times, potrebbero, secondo Meltzer, essere viste come motivo di ritorsione da parte degli Stati Uniti.
Assange come Navalny?
Nel maggio 2019, Meltzer ha denunciato un processo tendente alla criminalizzazione del giornalismo investigativo da parte degli Stati Uniti, con riferimento al crescente interesse per Assange. Una volta considerato un eroe dai progressisti internazionali, Assange è stato dipinto come un agente manipolatore quando, nel 2016, ha reso pubblici gli archivi del Comitato Nazionale Democratico di Hillary Clinton. Questo lo ha portato ad essere accusato, senza prove concrete, di essere coinvolto nel “Russiagate”, che avrebbe favorito la vittoria di Donald Trump. La moglie Stella denuncia che una sua detenzione americana potrebbe condurlo a una lenta e graduale morte. Come una tortura differita. La stessa che, a suo modo, ha subito Navalny.
Vogliamo fare di Assange il Navalny dell’Occidente? Il rischio esiste. Come diceva un’amica giornalista commentando il parallelismo tra i due casi, “dove la democrazia non c’è il cadavere è appeso in pubblica piazza. È lì che la democrazia c’è che si rischia il palco teatrale e i cadaveri nascosti nel retroscena, dove nessuno li vede”. Vale per chi con l’illusione di “giusti processi” è sottoposto alla peggiore delle punizioni, la pena di morte, nei sistemi democratici così come per chi affronta sfide quali quella di Assange, dove vendetta politica e giustizia si sommano. Per questo mostrare che l’oscurità non ha ancora inghiottito le nostre imperfette ma insostituibili democrazie è ora più che mai decisivo. Serve per dare un messaggio. A maggior ragione dopo la morte indotta dell’oppositore più noto di Putin.