Perché questo articolo potrebbe interessarti? L’ex Ilva ancora al centro del dibattito: lo stabilimento necessita di importanti investimenti per l’ammodernamento e la messa in sicurezza, diversamente la sua operatività avrebbe poco senso. A ribadirlo ai nostri microfoni è stata l’esponente nazionale di Legambiente, Mara Maranò: “In questi anni lo Stato ha sprecato soldi, ma perché è mancato un vero piano industriale”.
Il governo ha quindi scelto la via del commissariamento per l’ex Ilva: nelle scorse ore, in particolare, Giancarlo Quaranta è stato nominato commissario di Acciaierie d’Italia, la società che controlla lo stabilimento di Taranto. Su di lui è stata riposta la fiducia anche dei sindacati e dei vertici locali di Confindustria, i quali vedono nella quarantennale esperienza nel mondo della siderurgia una garanzia più che valida.
Contestualmente, è terminata l’era di ArcelorMittal, il colosso franco-indiano che nel 2018 era subentrato al timone dell’ex Ilva e che deteneva il 62% delle azioni di Acciaierie d’Italia. Il rilancio dell’impianto non sarà semplice: la società commissariata ha 700 milioni di Euro di debiti ed è chiamata, per garantire la continuità della produzione, a spese molto onerose. Vuol dire cioè che, ancora una volta, lo Stato dovrà sborsare per mettere al sicuro almeno l’ordinarietà e pagare i fornitori.
Lo spettro di un nuovo sperpero di denaro pubblico
La scelta dell’esecutivo è stata orientata al mantenimento dello stabilimento di Taranto. Una decisione non scontata alla vigilia, considerando che ad esempio sul caso Stellantis, dopo l’evocazione della chiusura di alcuni stabilimenti italiani paventata dai vertici della società automobilistica, il governo ha fatto intuire di essere pronto ad erogare eventualmente soldi per la cassa integrazione.
Palazzo Chigi vede evidentemente un futuro per l’ex Ilva. In tempi però di coperte corte e bilanci da sistemare, vale la pena mettere in conto ulteriori grosse spese per tenere aperto l’impianto pugliese? Un tempo acciaieria più grande del Paese e cuore della siderurgia italiana, lo scorso anno da Taranto sono uscite poco più di tre milioni di tonnellate di acciaio. A livello nazionale, secondo i dati di Siderweb, la produzione si è attestata a 21.1 milioni di tonnellate, con un calo del 2.5% rispetto all’anno precedente.
Le tre tonnellate eventualmente mancanti dal distretto pugliese, potrebbero quindi tutto sommato essere colmate e coperte in parte aumentando la produzione di altri impianti e in parte importando acciaio dall’estero. Anche perché, sempre secondo Siderweb, la domanda di acciaio nel nostro Paese è rimasta stabile essendo cresciuta solo dell’1%: “Ma occorre però tenere in considerazione anche altri fattori – ha dichiarato su TrueNews Mara Maranò, tarantina ed esponente nazionale di Legambente – dalle necessità legate al lungo periodo ai posti di lavoro sul territorio”.
Maranò segue da anni le vicende legate all’ex Ilva e ai nostri microfoni, seguendo anche quella che è la posizione dell’associazione ambientalista, si è detta favorevole nel continuare a vedere aperto lo stabilimento: “Tuttavia è innegabile – sottolinea – che in questi ultimi anni lo Stato ha sprecato molti soldi e rischia di sprecarne altri”.
Soldi che sono serviti, soprattutto nell’ultimo decennio, a pagare casse integrazioni, spese dell’ordinaria amministrazione e, in generale, a garantire l’operatività dell’acciaieria: “Si è fatto mero assistenzialismo – ha rimarcato ancora Maranò – sono stati tirati fuori milioni di Euro ogni qualvolta si presentava un’emergenza, ma senza interventi strutturali”. In questi anni quindi il denaro è servito solo per tamponare le grosse falle legate all’ex Ilva, senza però veri e propri piani industriali di rilancio: “E oggi – continua l’esponente di Legambiente – ci ritroviamo con una struttura molto meno produttiva e molto più inquinante, quindi confermo che secondo me le mosse fatte fino ad adesso hanno rappresentato solo uno sperpero di soldi e anche di tempo”.
Quanto è costato ad oggi mantenere l’ex Ilva
Conti alla mano, in effetti l’esborso della mano pubblica è stato piuttosto considerevole. Secondo un calcolo redatto dal Corriere della Sera, fino al 2022 solo per pagare la cassa integrazione lo Stato ha dovuto tirare fuori dalla tasca almeno 400 milioni di Euro. A questi occorre aggiungere altre somme ancora più gravose, tra perdite dirette e perdite indirette. Sul primo fronte, nel periodo che va dall’abbandono dei Riva, la famiglia che fino al 2012 era proprietaria dell’impianto, fino all’arrivo di ArcelorMittal nel 2018 l’ex Ilva ha prodotto un buco da 3.5 miliardi di Euro.
Solo nel 2015 infatti, lo stabilimento pugliese ha registrato una perdita di 50 milioni di Euro al mese. L’anno successivo invece, la perdita è stata di 25 milioni al mese, per poi passare a 30 nel 2017 e di nuovo a 25 nell’anno poi della cessione ai franco-indiani. Nel primo triennio di amministrazione statale (dal 2012 al 2014), la perdita complessiva è stata di 2.1 miliardi di Euro. Una cifra ricavata, ha spiegato ancora il Corriere, dai dati emersi dalla cosiddetta “data room” accessibile alle aziende che hanno manifestato interesse all’acquisizione.
Una perdita costante quindi, figlia di una mancata programmazione, di continue incertezze e di piani mai realmente attuati e messi in moto. L’impressione è quella di uno stabilimento lasciato alla deriva, con la classe politica che forse ha preferito navigare a vista piuttosto che cercare un porto sicuro in cui interrompere l’emorragia di denaro pubblico. Alle somme già perse, bisogna poi aggiungere quelle da mettere sul piatto per gli investimenti industriali: nel 2022 le spese stimate in tal senso erano di 2.1 miliardi di Euro, oggi saranno sicuramente di più.
La necessità di rinnovare il processo produttivo
Se lo Stato dovesse spendere di proprio pugno tutte quelle cifre, la questione sull’opportunità di tenere ancora in vita l’ex Ilva sarebbe di grande attualità. Lo stabilimento nelle condizioni attuali non potrà produrre ancora per molto tempo e non potrà andare oltre le tre tonnellate di quest’anno. Un concetto quest’ultimo ribadito nelle scorse settimane dai sindacati, i quali hanno denunciato condizioni sempre meno adeguate all’interno dell’impianto.
Occorrerà spendere molto, ma spendere soprattutto bene. Gli investimenti dovranno puntare sulla messa in sicurezza e sull’ammodernamento delle strutture: “Noi di Legambiente pensiamo che esiste un futuro per l’ex Ilva – ha commentato Maranò – ma il futuro deve essere diverso dall’attuale status quo, altrimenti tanto vale arrivare alla chiusura”. Secondo l’associazione ambientalista, occorrerebbe puntare in primis sulla de carbonizzazione: “Serve rinnovare il processo produttivo, convertire e de carbonizzare l’impianto – ha proseguito – ci sono tutte le tecnologie per garantire sia una maggiore produzione che un minore impatto sull’ambiente”.
C’è poi un altro tema legato proprio alla sensibilità ambientale: “Qui le parlo da ambientalista – prosegue Maranò – mettiamo che si decida di chiudere e si sceglie di importare da altre parti. Siamo sicuri che l’acciaio acquistato altrove sia di migliore qualità e sia realizzato in Paesi con una sensibilità ambientalista? Che senso ha parlare di necessità di togliere l’inquinamento da Taranto per poi comunque far inquinare altrove per avere acciaio? Credo invece che investire qui sia importante e dia migliori risultati sia in relazione alla qualità dell’acciaio che al rispetto dei parametri ambientali”.
I costi di un’eventuale bonifica
Ragionando sui costi, c’è un altro fattore da tenere in considerazione ed è quello relativo alla bonifica. Anche in caso di chiusura infatti, occorrerebbe comunque spendere importanti somme per ripulire e bonificare l’intera area dell’ex Ilva. Tenere i cancelli dello stabilimento chiusi, in poche parole, si tradurrebbe per lo Stato nell’obbligo di tirare fuori molti soldi dal portafoglio per non lasciare esposti all’acqua e al vento i residui di una maxi fabbrica abbandonata.
“Una bonifica qui costerebbe tanto – ha dichiarato ancora Maranò – certo, garantirebbe indotto e lavoro per tanti anni, ma con costi importanti. E poi personalmente sono scettica sull’eventualità di una maxi bonifica a Taranto”. Storicamente in Italia infatti, secondo la rappresentante di Legambente, non si è mai provveduto a una vera azione di bonifica nelle aree industriali abbandonate se non per realizzare altri impianti.
“Se non ci sono interessi di altri operatori a intervenire in quella determinata area – ha concluso Maranò – nel nostro Paese difficilmente si assiste a operazioni di bonifica. Ci sono tanti episodi che purtroppo lo dimostrano”. Comunque la si veda, chiusa oppure in funzione, l’ex Ilva avrebbe comunque dei costi. Somme importanti e forse anche poco sostenibili, se non con l’avvento di un operatore privato.