Perché l’Egitto non apre il valico di Rafah ai profughi di Gaza? Alla prova dei fatti la solidarietà tra Paesi arabi e islamici non è sufficiente per permettere alle persone che fuggono dai bombardamenti israeliani su Gaza a far aprire i confini tra la Striscia di Gaza e l’Egitto. E, nel caos che divampa nel Medio Oriente, Il Cairo si guarda bene dal promuovere questa mossa.
L’unità panaraba non esiste più
Perché? Una serie di misure sono alla base della cautela dell’Egitto. Ne abbiamo individuate cinque: la sostanziale inesistenza dell’unità panaraba, la rivalità tra al Sisi e i Fratelli Musulmani, il timore del rischio jihadista, il volume dell’esodo temuto e la crisi economica del Paese.
La prima, la più evidente, è che l’unità panaraba non esiste più, men che meno quella panislamica. La solidarietà tra Paesi non è più un’aggregante nella regione almeno dal 1979, anno della normalizzazione proprio tra l’Egitto e Israele con gli Accordi di Camp David. Dagli interventi stranieri nei conflitti di Siria e Yemen alla rivalità saudito-qatariota, passando per l’onda lunga delle Primavere Arabe, l’ultimo lungo decennio è stato un esempio di questo contesto in frantumi.
Al Sisi teme il revival dei Fratelli Musulmani
C’è poi un secondo tema strategico-politico: il governo di Abd Fatah al-Sisi, in carica dal 2012, è un regime militare castrense, nazionalista e laico, che sta cercando un ruolo di bilanciamento regionale. Ed è salito al potere con un golpe che ha rovesciato il primo governo post-Primavera Araba, quello di Mohammed Morsi. Esponente di un’area politica che fa riferimento ai Fratelli Musulmani, dunque a quell’asse Turchia-Qatar a cui guarda anche Hamas.
Al Sisi guarda a altri attori, come l’Arabia Saudita e in prospettiva la stessa Israele, partner sul gas e il commercio, come riferimenti diplomatici. E teme che un’ondata di profughi da Gaza rinfocoli il movimento della Fratellanza.
L’Egitto teme il ritorno del terrorismo
Questo si lega al terzo tema: il timore che l’ondata di profughi renda l’Egitto una centrale di riferimento per chi fosse in cerca di giovani reclute per i movimenti jihadisti internazionali.
Già fonte di molti lutti nell’ultimo decennio. Nel 2017, ad esempio, nella Domenica delle Palme furono colpite due chiese a Tanta e Alessandria nella giornata del 9 aprile, in attentati che causarono 45 morti. A novembre 311 persone furono massacrate da un gruppo di terroristi che assediarono a colpi di mitra una moschea nel Sinai. I più emblematici di una serie di attentati riconducibili allo Stato Islamico o ad Al Qaeda a cui Al Sisi ha sempre risposto con repressione e pugno di ferro.
L’esodo biblico può travolgere l’Egitto
Quarto punto, c’è un tema oggettivo di numeri. “Circa 1,5 milioni di civili palestinesi sono attualmente schiacciati nella città di Rafah, nel sud di Gaza, dopo essere stati ripetutamente costretti dai bombardamenti e dagli attacchi di terra israeliani ad evacuare sempre più a sud”, nota The Conversation. “La città, che originariamente aveva una popolazione di 250.000 abitanti, ora ospita più della metà dell’intera popolazione di Gaza. Si stanno rifugiando in condizioni che il massimo funzionario umanitario delle Nazioni Unite ha definito “terribili”, con la diffusione di malattie e la carestia incombente”.
Un quadro umanitario e sociale devastante che lascia l’Egitto di fronte al rischio di un esodo di portata biblica. Una traversata del Sinai condotta in direzione opposta a quella di Mosé non per cercare una Terra Promessa ma per fuggire dalla disperazione. Proviamo a immaginare a cosa potrebbe voler dire un potenziale esodo della popolazione extra riversatasi a Rafah (stando bassi, 1,25 milioni di persone) nell’area desertica.
L’Italia ha avuto nel 2023 difficoltà a gestire 150mila profughi riversatisi nel corso di dodici mesi nel Mediterraneo sugli hotspot di Lampedusa e del Sud Italia avendo un tradizionale contesto di gestione dei flussi migratori. Immigrazione, questa, che non comportava inoltre le problematiche sociali di scala ampia che quella dei profughi di guerra di Gaza comporterebbe. L’Egitto si troverebbe a un esodo di portata sette-otto volte superiore in poche settimane in caso di apertura dei valichi: una situazione ingestibile.
La crisi economica del Paese
A maggior ragione, quinto e ultimo punto, se si considera la persistente crisi economica del Paese guidato da al Sisi. Inflazione galoppante, rincari dei prezzi delle faraoniche opere pubbliche pensate da al Sisi e crisi energetica e alimentare del 2022-2023 hanno messo a rischio l’economia nazionale. Il blocco del Mar Rosso per la crisi scatenata dagli Houthi danneggia un altro fronte di entrata. E ora l’Egitto si trova nella condizione di Paese too big to fail.
“Pur di non lasciare allo sbaraglio Il Cairo, i Paesi della regione hanno deciso di sborsare parecchi soldi”, ha scritto Mauro Indelicato su InsideOver. Aggiungendo che “da un fondo emiratino, sono arrivati almeno 35 miliardi di dollari. Dall’Arabia Saudita invece, dovrebbero arrivare altri 15 miliardi di dollari”.
La banca centrale ha operato un drastico rialzo dei tassi per onorare gli impegni chiesti dal Fondo Monetario Internazionale per ottenere un prestito da 10 miliardi che, nota Indelicato, avrà come contropartita un piano “che dovrà però prevedere tagli alla spesa e controllo dei prezzi. Anche perché all’Egitto, per scongiurare definitivamente la crisi, servono riforme strutturali in grado di riequilibrare nel lungo periodo la situazione. Diversamente, terminata la boccata d’ossigeno garantita dai prestiti, a Il Cairo si tornerà a parlare di bancarotta”. In quest’ottica, una crisi migratoria darebbe il colpo di grazia