Perchè leggere questo articolo: La cooperativa di attori Artisti 7607 fa causa a Netflix denunciando “compensi irrisori”. Proteste dello stesso tenore di quelle dei musicisti nei confronti di Spotify. Ma già nel 2014 Taylor Swift aveva intrapreso una crociata e…
“Non vogliamo subire atteggiamenti ostruzionistici e accettare compensi irrisori da parte delle piattaforme streaming”. E’ questo il passaggio chiave del comunicato con cui Artisti 7607, la società cooperativa che tutela e gestisce i diritti connessi di oltre 3mila attori e doppiatori in Italia e nel mondo, ha annunciato di aver citato in giudizio Netflix presso il tribunale civile di Roma per ottenere il compenso adeguato e proporzionato spettante per legge ai propri artisti mandanti”. Tra i nomi di maggiore calibro figurano Elio Germano, Neri Marcorè, Claudio Santamaria, Valerio Mastandrea, Paolo Calabresi. La nota prosegue: “Dopo oltre otto anni di sterili trattative per ottenere i dati necessari alla determinazione del compenso per gli artisti previsto dalla normativa europea e nazionale, Artisti 7607 si vede costretta a ricorrere al giudice ordinario per chiedere il rispetto della legge”. La protesta pare dunque ricalcare quella degli attori e sceneggiatori statunitensi.
Gli attori: “Così Netflix tiene molto bassi i nostri compensi”
“Tutti reclamiamo trasparenza dei dati di sfruttamento delle opere audiovisive e adeguatezza dei compensi”, dichiara Marcorè. Proprio le piattaforme che trattano e sfruttano dati si rifiutano, grazie al loro strapotere economico e contrattuale, di fornirci i dati previsti dalla normativa e di corrispondere conseguentemente i compensi agli artisti. E parliamo di multinazionali i cui ricavi vengono esclusivamente dallo sfruttamento di opere audiovisive”, ha aggiunto Germano. “La direttiva Copyright ha chiarito che le remunerazioni degli artisti devono essere “adeguate e proporzionate” ai ricavi. Invece ci troviamo davanti a un sistema in cui le piattaforme, senza fornire tutte le informazioni previste dalla legge, chiudono accordi al ribasso e poi cercano di imporre le stesse cifre a tutto il mercato, così da tenere i livelli dei compensi degli artisti sempre molto bassi”, sono le parole di Michele Riondino.
“Ci assumiamo questa responsabilità perché le scelte che vengono fatte oggi riguardano tutti e avranno ripercussioni sul presente e sul futuro di tanti artisti e di tante generazioni. Anche quelle che verranno dopo di noi, quindi a brevissimo”, è la posizione di Valerio Mastandrea. Conclude Paolo Calabresi: “Gli artisti chiedono nuovamente che il governo e le Autorità di settore prendano una posizione chiara nei confronti di questa prassi, così come è avvenuto per il settore dell’editoria”.
Netflix replica agli attori: “Hanno rifiutato la nostra offerta di pagamento”
Dal Governo non paiono essere ancora giunte prese di posizione ufficiali. Ma c’è una prima risposta da parte di Netflix. Un cui portavoce ha spiegato ad Ansa: ‘‘Il compenso degli artisti, interpreti ed esecutori è di fondamentale importanza per Netflix. Da molti anni abbiamo un accordo con Nuovo Imaie, la collecting italiana che rappresenta la maggioranza degli artisti, interpreti ed esecutori italiani. Abbiamo cercato a lungo di raggiungere un accordo con Artisti 7607 e abbiamo fornito loro tutte le informazioni previste dalla legge, come riconosciuto dall’AGCOM nella sua decisione dello scorso anno. Artisti 7607 ha ripetutamente rifiutato la nostra offerta di pagamento e, pur augurandoci che la accettino, attendiamo ora la decisione del tribunale”. Toni concilianti ma nessun passo indietro.
La protesta degli attori contro Netflix? Uguale a quella dei musicisti contro Spotify
La protesta degli attori contro Netflix assomiglia moltissimo a quella dei musicisti contro Spotify. Ne ha parlato Andrea Girolami nell’ultimo numero della sua newsletter Scrolling Infinito. L’ultimo sasso lo ha lanciato l’inglese James Blake con un tweet su X: “Il lavaggio del cervello ha funzionato e ora le persone pensano che la musica sia gratis”. Parole riprese poi tra gli altri da Kayne West o, in Italia, da Salmo. Che ha sintetizzato in otto parole quello che gli attori di Artisti 7607 enunciano nel loro lungo comunicato: “Le piattaforme di streaming ci pagano un cazzo”.
Spotify, la lezione di Taylor Swift (di dieci anni fa)
Porteranno a qualcosa queste proteste? Vale la pena annotare che risale a ben dieci anni fa (un’era geologica digitalmente parlando) la crociata avviata nientemeno che da Taylor Swift contro il colosso svedese di distribuzione della musica online. La cantante era uscita nel 2014 da Spotify lamentandosi già allora dei pagamenti irrisori per gli streaming. Poi la riappacificazione. Con reciproca soddisfazione. Si stimano in 131 milioni di dollari le royalties riconosciute all’autrice di “Bad Blood“, prima artista femminile a superare i 100 milioni di follower su Spotify. Ma la morale è forse un’altra. In questi dieci anni sia Spotify che Taylor Swift sono divenuti ancora più grandi. A dimostrazione che A) Le piattaforme di streaming possono benissimo sopravvivere al ciclico malcontento degli artisti B) Gli stessi artisti possono ancora riuscire ad ottenere enorme successo – anche economico – nonostante le penalizzanti condizioni dei contratti di streaming.
Musicisti e attori devono ripensarsi creator per sopravvivere
Come? Torniamo a Scrolling Infinito. Per “colpa” di internet la musica (ma, aggiungiamo noi, anche film e serie tv) è divenuta una “commodity, un bene che consumiamo in quantità, ma senza badare alla sua provenienza, come succede con l’acqua o lo zucchero”. E così, nella filiera dei contenuti musicali, “il potere è passato dalle mani degli artisti e dei loro distributori (case discografiche), a quello delle piattaforme che li aggregano e, soprattutto, in quelle delle persone che li consumano Lo scontento degli artisti nasce da questo cambiamento paradigmatico per cui bisogna produrre contenuti per chi ha il coltello dalla parte del manico: gli ascoltatori di musica, gli unici che possono decidere il successo o il fallimento di una canzone”. Come ne possono uscire gli artisti? Come qualsiasi altro produttore di contenuti digitali. “Reinventandosi” creator. “I creator hanno poco a che fare con la definizione di artista romantico dei secoli scorsi, somigliano invece a degli atleti. Come gli sportivi anche i creator non hanno il lusso di potersi fermare a piacimento, devono tenersi in esercizio e performare al meglio delle loro possibilità”. Prospettiva che, legittimamente, non tutti i musicisti o gli attori potrebbero trovare allettante. “Uno su mille ce la fa”, cantava Gianni Morandi. Taylor Swift è quell’uno su mille.
E nel frattempo Amazon Prime inserisce la pubblicità…
E’ del resto assai improbabile che la giostra possa fermarsi. Le piattaforme sembrano anzi ben intenzionate ad affinare sempre di più i loro meccanismi. Anche nei confronti degli utenti. Proprio in questi giorni Amazon Prime sta annunciando la sua (indigesta) novità in Italia: Jeff Bezos ha inserito le pubblicità nei film e nelle serie tv dei suoi cataloghi. Per non averle, bisognerà pagare un supplemento di abbonamento da 1,99 euro al mese. Qualcuno protesterà. Poi, è facile immaginare, pagherà.