Elly Schlein ha vinto la sua scommessa per le Europee portando il Partito Democratico a un risultato positivo, un 24% frutto della tenuta dei dem nelle loro roccaforti e del gioco a incastro delle preferenze che ha trainato la formazione guida del campo progressista.
Il pluralismo del mondo dem alle Europee
Da Nord a Sud, Schlein ha schierato una combinazione di candidati identitari di marcato stampo progressista, come i due portabandiera Cecilia Strada e Alessandro Zan e il giornalista Sandro Ruotolo, uniti a figure espressione del tessuto amministrativo dem. Tra questi, i sindaci uscenti Giorgio Gori, Dario Nardella e Antonio Decaro che hanno fatto il pieno di preferenze a Bergamo, Firenze e Bari. O il presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini.
Non è stata chiusa nemmeno la porta al mondo cattodem, e il partito è riuscito a coniugare la spinta elettorale dei radicali progressisti al Nord con la conquista dei consensi dell’area di Sant’Egidio a Roma, decisivi per la volata che ha portato Marco Tarquinio al Parlamento Europeo.
Le sfide del Pd
Un risultato positivo, indubbiamente. Che pone un problema di governance del partito per il prossimo futuro: come fare di questo pluralismo una sintesi per una cultura di governo? Dentro il Pd di Schlein si accentuano le differenze tra aree che remano nella stessa direzione ma in cordate separate: qualcosa che aiuta all’opposizione. Ma, in prospettiva, possono esprimere una cultura di governo coerente sensibilità tanto diverse come quella laburista della segretaria e quella dei riformisti difensori del Jobs Act?
Possono convivere l’aperto sostegno all’Ucraina e alle tematiche della Difesa mostrato da un neo-eurodeputato come Gori e il pacifismo di Strada e Tarquinio? Sapranno convergere anime territoriali eterogenee del Pd come i feudi delle città industriali del centro, come Ravenna, le “parrocchie d’Italia” più di centro che di Sinistra di Brescia e Bergamo e la cultura spiccatamente liberal, i critici direbbero woke, dei dem di Milano e Bologna? Nella costruzione dell’alternativa di governo il Pd, oltre Schlein, deve porsi seriamente queste domande. Dentro al partito si trovano oggi questioni palesi in passato nell’intera coalizione di centrosinistra.
Il Pd e la necessità di essere perno
Ieri il problema era far convergere, attorno all’asse formato da Margherita e Democratici di Sinistra la coalizione che andava “da Che Guevara a Madre Teresa”, parafrasando Jovanotti, dai comunisti di Rifondazione all’Udeur di Clemente Mastella, a sostegno delle due vittorie elettorali di Romano Prodi (1996 e 2006). Oggi il Pd va dal Pride alle Acli, dalla sagra di paese emiliana all’apericena meneghina, da Leonardo alla Marcia della Pace di Assisi. Ricchezza e complessità. Su cui è complesso trovare un punto di caduta. Specie, a maggior ragione, se il pluralismo dovrà andare di pari passo con la spinta a federare un campo dove le pressioni arrivano da ambo i lati.
Da Sinistra, Alleanza Verdi e Sinistra, parola del leader ecologista Angelo Bonelli vuole essere punto di sintesi tra i dem e il resto della potenziale coalizione, a partire dal Movimento Cinque Stelle. A destra il Pd ha le sirene riformiste dei centristi, perennemente nostalgici dell’era Draghi. Essere centrali vuol dire saper essere perno. Se Schlein saprà fare di questa complessità che l’ha premiata alle urne un volano politico, saprà costruire una coalizione. Altrimenti il rischio è che le spinte centrifughe si amplifichino.