Tra Kamala Harris e Donald Trump si gioca il futuro presidenziale degli Usa ma anche, al contempo, una sfida su quello dell’Ucraina. Da una parte Washington ha in Joe Biden un presidente che ha deciso (volontariamente o no) di ritirarsi dalla corsa per il secondo mandato, anziano e malato, incapace di difendere la propria figura all’interno del Paese, figuriamoci quella del Paese nel mondo. Dall’altra una vicepresidente completamente dedita a risollevare una campagna elettorale che fino a domenica pomeriggio (ora americana) sembrava potesse concludersi solamente con una disfatta totale per il proprio partito.
Ucraina, la guerra arriverà alle prossime presidenziali?
Questo appare per molti osservatori un momento in cui gli States farebbero bene a ritirarsi dal “Risiko” – il gioco da tavolo con cui Jeffrey Sachs descrive la politica estera statunitense – che stanno giocando da ormai trent’anni e concentrarsi sul caos che sta dominando la loro politica interna. Il momento perfetto per far emergere proposte di negoziato in Ucraina.
Dall’alimentare una speranza di vittoria con continui foraggiamenti militari a costanti opposizioni (proprie o dei propri “alleati”) a possibili proposte di pace, non è un segreto che gli Stati Uniti hanno ricoperto un ruolo importante nel far – se si vuole evitare la parola “fallire” – non avvenire la pace tra Russia e Ucraina. “Sebbene le capitali europee e i leader ucraini non siano esenti da colpe, Washington detta indiscutibilmente il passo su questioni legate alla guerra e alla pace tra Russia e Ucraina” afferma Daniel L. Davis, esperto militare e veterano dell’esercito statunitense.
La pace non raggiunta
Oltre a dei mancati interventi che avrebbero potuto prevenire l’invasione russa, anche dopo il 24 febbraio 2022, quando il sangue della popolazione ucraina e dei soldati russi aveva iniziato a impregnare il suolo, lo sforzo della diplomazia americana e di riflesso occidentale sembrava più mirato a evitare la pace che a perseguirla. La prima a tentare di far sedere Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky al tavolo dei negoziati fu la Turchia, membro NATO che da subito ha strategicamente cercato “un equilibrio tra l’essere pro-Ucraina senza essere apertamente anti-Russia” come scrive Eleonora Tafuro Ambrosetti nella sua analisi sull’approccio diplomatico di Ankara.
Un approccio apparentemente vincente se si considera il discorso di Zelensky a poche settimane dall’inizio del conflitto in cui si dichiarava pronto ad accettare le richieste di “neutralità e status di paese non-nucleare”, i punti chiave su cui Putin si è sempre mostrato fermo e non disposto ad alcun tipo di compromesso.
Il momento giusto per mediare in Ucraina?
Tuttavia quello che sembrava un punto di svolta si trasformò ben presto in un nulla di fatto. Forse un nuovo pacchetto di armi occidentali arrivò puntuale a risollevare un’infondata speranza di vittoria? O forse fu l’immediata visita di Boris Johnson in Ucraina in cui “il Primo Ministro britannico, seguendo la tradizione guerrafondaia anti-russa tipicamente britannica, aveva messo in guardia Zelensky contro l’ipotesi di neutralità e sull’importanza di una sconfitta russa sul campo di battaglia” a dissuadere Kiev. L’autentica verità non ci è dato saperla. Fatto sta che il primo tangibile tentativo fallì presto andando a inclinare anche le possibilità future. La storia ci insegna che una guerra più si prolunga, più è difficile da cessare: il conflitto si stagna, i morti crescono così come il risentimento e l’odio tra le due parti.
Con gli Stati Uniti occupati a gestire i loro disordini interni, con meno tempo e energie per ideare pacchetti di armi capaci di riaccendere speranze di vittoria incompatibili con l’attuale situazione sul campo di battaglia o per pensare a nuove strategie di dissuasione in caso di qualche cedimento ucraino verso possibili negoziazioni, questo sembra il momento ideale per tentare di mediare tra le due parti.
Attori come Cina e India potrebbero dare la svolta. Entrambe possono trarre forza dai loro legami con la Russia, legami che le pongono in una posizione quantomeno mediana, necessaria per qualsiasi terza parte coinvolta in negoziazioni di pace credibili.
L’Ucraina tra Trump e Kamala
Sicuramente non possiamo contare sui paesi europei che nonostante dall’inizio della guerra abbiano tratto solamente sanzioni boomerang e un conflitto sulle porte di casa non sembrano disposti a discostarsi nemmeno di un millimetro dalla politica della “Mamma America”. Basti vedere le reazioni dei leader del Vecchio Continente ai tentativi di dialogo del Presidente Viktor Orban, percepiti come atti di cospirazione con il nemico a cui sono seguiti i consueti “richiami all’ordine”. Ultimo tra tutti la decisione di Josep Borell, capo della politica estera dell’Unione Europea, di sollevare l’Ungheria dall’incarico di ospitare la prossima riunione dei ministri degli Esteri e della Difesa. Reazioni sospettose assolutamente prevedibili se si considera che i compagni europei di Orban sono abituati a indire “conferenze di alto livello sulla pace in Ucraina” senza invitare chi è coinvolto in prima persona nel conflitto.
In questo momento storico segnato da conflitti e crisi una delle più grandi preoccupazioni a livello internazionale riguarda i possibili risvolti di un nuovo mandato presidenziale statunitense sulla guerra in Ucraina. Quale incentivo migliore per concluderla prima o per avviare negoziati così solidi che nessun Trump Bis o Kamala First o chi per lei potrà far crollare? Anche perché se la fermezza di Trump sul tema ci spaventa, la visione della Harris “identica a quella di Biden” non dovrebbe certo rassicurarci a fronte dei suoi effetti (o mancati effetti) sulla risoluzione del conflitto.