Perché questo articolo ti dovrebbe interessare? Padre Andrea Melis viene arrestato a Finale Ligure per abusi su minori ma i media italiani si concentrano quasi esclusivamente sul suo essere positivo all’HIV. Perché questa scelta è un problema? Ne abbiamo parlato con Marco Stizioli di PrEP in Italia, Valeria Calvino di Conigli Bianchi ed Enrico Caruso di Milano Checkpoint.
Padre Andrea Melis, direttore di una scuola privata e parroco a Finale Ligure, è stato recentemente accusato e arrestato per violenza sessuale su minore, prostituzione minorile e tentata violenza aggravata. A seguito dell’arresto, la Curia ha disposto la sua sospensione. Anche se i dettagli delle accuse potrebbero far riflettere sugli abusi nella Chiesa, la stampa ha scelto di concentrarsi principalmente sullo status sierologico del sacerdote, rivelando la sua positività all’HIV resa nota in prima stanza dalla GIP (giudice per le indagini preliminari) Milena Catalano. Perché questo tipo di comunicazione è problematico per l’accusato, le vittime e in generale le persone sierocoinvolte? L’abbiamo chiesto a Marco Stizioli di PrEP in Italia, Valeria Calvino di Conigli Bianchi ed Enrico Caruso di Milano Checkpoint.
È rilevante in merito al fenomeno degli abusi sottolineare il fatto che padre Melis sia positivo all’HIV?
Risponde Marco Stizioli, cofondatore di PrEP in Italia, content creator e operatore alla pari per la salute sessuale: “No, non è rilevante perché padre Melis assumeva regolarmente la terapia e – come dimostrano numerosi studi – la terapia farmacologica che assume chi vive con HIV fa in modo che il virus sia non trasmissibile, anche attraverso rapporti non protetti da preservativo. Stupisce che la GIP non lo sapesse e abbia pensato fosse opportuno divulgare la notizia così da alimentare ancora di più lo stigma verso chi vive con HIV”.
Sottolinea inoltre Enrico Caruso, coordinatore PrEP del Milano Checkpoint: “Dichiarare lo stato sierologico di una persona senza il suo consenso non è deontologicamente corretto da parte dei giornalisti. Questo è aggravato da una disinformazione di base della classe giornalistica sul tema”.
Cosa c’è di sbagliato nella narrazione che media italiani hanno costruito sull’arresto di padre Melis?
Afferma Valeria Calvino, attivista membro di Conigli Bianchi, collettivo contro la sierofobia: “Premettendo che il reato verrà accertato e giudicato nelle sedi opportune, ritengo che la notizia rilevante sia che un sacerdote, quindi una figura che, per chi pratica la religione cattolica, è ritenuta una guida spirituale, approfitti della propria posizione per commettere abusi sessuali su un minorenne. Divulgare il fatto che questa persona sia anche positiva all’HIV viola un dato sensibile (e lo Stato deve tutelare i diritti di tutt*, anche dei colpevoli di reati odiosi come questo) e crea un clima di allarme che è anche, da un punto di vista scientifico, assolutamente ingiustificato. La divulgazione dello status sierologico del sacerdote, in particolare nei titoli, che sono spesso la sola cosa che si legge, è fatta solo per acchiappare click e perpetuare la narrazione del ‘sieropositivo maniaco sessuale’, che fa tanto prurito”.
“C’è un altro tema ricorrente in queste storie” continua Caruso, “quello dell’untore. Oltre a essere non vero in questo caso particolare, perché negli articoli stessi si dichiara che l’accusato è in terapia con carica virale soppressa (quindi non è possibile per lui contagiare nessuno, U=U) quindi contraddicendo anche i titoli stessi, non fa altro che alimentare un’isteria collettiva attorno alle persone che vivono con HIV che è solo dannosa per le vite di tutti, non solo delle persone che convivono con questa infezione.
Un ultimo tema, che ricorre spesso e anche nelle narrazioni di questo caso, è per i giornalisti la commutabilità tra i termini HIV e AIDS, altro trope comune ma anche molto falso. HIV è il nome del virus e della conseguente infezione, che non è mortale e ci si può convivere attraverso l’assunzione di terapie antiretrovirali adeguate. Questi regimi terapeutici permettono a chi vive con HIV di avere un’aspettativa di vita identica a chi non vive con questa infezione. AIDS, invece, è la sindrome da immunodeficienza acquisita che è la conseguenza diretta quando non si tratta adeguatamente l’infezione da HIV; e può portare nei casi più gravi alla morte dell’individuo”.
Molte volte ricorre il termine sieropositivo. È una parola adatta a descrivere una persona positiva all’HIV?
“Oltre a essere una parola che si porta dietro lo stigma degli anni ’80/’90” chiarisce Stizioli, “è un termine scorretto perché poco specifico. Positivo a cosa? Il Covid ce l’ha insegnato: possiamo essere positivi a tanti virus. È dunque più corretto dire ‘persona che vive con HIV‘”.
Calvino osserva: “Scientificamente non vuol dire nulla, se non che il siero di una persona è positivo a un agente patogeno (virus o batterio). Purtroppo, nell’immaginario collettivo è diventato un termine stigmatizzante. Ricordo alcuni striscioni da stadio con “Squadra X tutti sieropositivi”. In generale una patologia non definisce chi io sono. Noi siamo persone che vivono con HIV o persone HIV positive. Sempre persone prima di tutto”.
“Ad oggi, e ormai da parecchi anni” chiarisce infatti Caruso, “le linee guida nazionali ed internazionali indicano come il termine sieropositivo non sia adatto per descrivere questa condizione”.
In un caso mediatico come quello di padre Melis, lo stigma si riversa anche sulle vittime di abuso oltre che sulla persona abusante?
Spiega Calvino: “Assolutamente sì. Non è stato (giustamente) diffuso il nome della presunta vittima degli abusi. Ma immagino che chi abbia frequentato quella parrocchia sappia benissimo di chi si tratta. Questa persona, oltre ad aver subito abusi potrebbe trovarsi anche nella posizione di dover dimostrare la propria negatività all’HIV. Inaccettabile”.
Com’è possibile costruire una narrazione più corretta di questa notizia?
Stizioli risponde: “Una violenza su una persona minore è sempre una notizia devastante. Quello che possono fare però i giornali è riflettere se è opportuno condividere ogni informazione sull’abusante e sulla persona abusata. Prendersi quei 5 minuti per chiedersi: ‘!uesta notizia alimenta paure e stigma?’ Già questo sarebbe un bel traguardo”.
Calvino prosegue: “Senza voler minimamente difendere chi mette in atto questo tipo di reati, affermo con forza che il perpetuare questa narrazione che associa l’HIV a persone che li commettono non fa che aumentare lo stigma. E lo stigma fa sì che le persone con HIV, ancora nel 2024, vengano discriminate perché alla base di tutto ci si chiede: “Come se lo sarà preso?”, sottintendendo che “se ha l’HIV vuol dire che qualcosa di sbagliato in quella persona c’è”. Gli ultimi dati dimostrano che quasi il 50% delle nuove infezioni sono in persone che già mostrano sintomi, questo vuol dire che ancora, nel 2024, ci sono persone che hanno paura di andarsi a fare il test o che proprio non ci pensano perché non ritengono di avere comportamenti “trasgressivi”. Questo è il risultato dello stigma, il migliore alleato del virus HIV“.
“Si può costruire una narrazione più corretta solo informandosi” sottolinea Caruso. “L’informazione, di chi scrive queste storie è fondamentale. I giornalisti hanno la responsabilità di plasmare il pensiero collettivo attraverso le loro produzioni. Io credo che sia quindi loro responsabilità formarsi adeguatamente (responsabilità dell’ordine) attraverso i professionisti (medici e non) su questo argomento. Perché i danni che possono creare sono ingenti e si ripercuotono sulla vita delle persone. Come possiamo toccare con mano in questi giorni.
Come per molti altri temi, credo che l’ordine dei giornalisti abbia un obbligo, etico oltre che morale, di istituire corsi obbligatori per giornalisti che insegnino come raccontare queste storie nella maniera più corretta e rispettosa possibile. Altrimenti da questa crisi sociale dell’AIDS che dura da 40 anni non ne usciremo mai“.
Credits photo: Margherita Caprilli per Fuck Stigma: CHEAP STREET POSTER ART e Conigli Bianchi per il World Aids Day 2021