Cosa racconta la lite mortale tra il capo ultra dell’Inter Andrea Beretta e Antonio Bellocco, erede di uno dei clan più potenti della ‘ndrangheta calabrese. Russo: “Nelle curve rapporto di osmosi con la criminalità. Ma questo episodio cambierà molte cose”
Una lite mortale ha coinvolto il capo ultras dell’Inter Andrea Beretta e Antonio Bellocco, erede di uno dei clan più potenti della ‘ndrangheta calabrese, a sua volta nel direttivo del tifo organizzato del club nerazzurro. “Non avevo alternativa. Mi sono difeso, sennò mi ammazzava”, è quanto dichiarato da “Berro”, chiamato così da amici e compagni di curva, una volta che i carabinieri sono arrivati sul luogo del delitto. Antonio Bellocco, detto Totò, 36 anni e pregiudicato, viveva da poco più di un anno a Pioltello in rappresentanza del clan di Rosarno. Figlio di Giulio, morto al 41 bis nel carcere di Opera l’anno scorso, e nipote di Umberto, capo bastone della cosca. A spingere Bellocco ad insediarsi nella Curva Nord del Meazza sono gli affari. Infatti, il motivo delle ostilità con Beretta sarebbe riconducibile alla conquista di un posto al sole nei business che ruotano intorno al tifo organizzato, come gli incassi di “Milano siamo noi”, lo store della curva situato a Pioltello. O altre attività più opache. Non è la prima volta che le curve italiane rappresentano un terreno fertile per legami di questo tipo. Ne abbiamo parlato con il sociologo Pippo Russo. “C’è ormai una osmosi con la criminalità. Ma questo episodio cambierà molte cose». L’intervista.
Russo, un commento sulla vicenda di Beretta?
La vicenda racconta di come alcune curve degli stadi italiani siano entrate in osmosi con la criminalità. C’è stato un vasto mutamento dei movimenti ultras, alcuni sono spariti. Altri invece sono sopravvissuti, anche declinando una cultura della violenza che va al di fuori delle vicende calcistiche. Purtroppo, questo quadro di mutamento è entrato in un rapporto con le zone grigie fra violenza e criminalità che si sta facendo sempre più forte. L’episodio successo a Milano è rappresentativo di questa tendenza.
Il mondo ultras è sempre stato molto borderline. Siamo passati dagli anni degli scontri agli anni degli affari?
È importante non generalizzare sull’intero mondo ultras, perché ci sono anche delle forze molto sane. Ci sono invece dei gruppi del radicalismo da stadio che hanno trovato esattamente in una dimensione affaristica il loro vero motivo per stare nel mondo del calcio. Per alcune curve e in alcune metropoli soprattutto, questo aspetto è diventato particolarmente preponderante. La possibilità di avere questa forza di mobilitazione, di poter manovrare anche una massa critica e di gestire del consenso in curva viene facilmente declinata come un elemento che serve a fare affari. Muovendosi in una zona grigia fra legalità e illegalità, ecco che si ha un’ottima opportunità per far valere questo capitale di relazioni in termini di economia criminale.
Si tratta quindi di un terreno fertile?
Assolutamente sì.
Questo episodio passerà “in sordina” come è successo per Diabolik e Boiocchi o avrà delle conseguenze nel mondo ultras e giudiziario?
Credo che questo sia un episodio veramente eclatante. Secondo me qualcosa cambierà, non so quanto questo avrà poi impatto sulle curve, perché il mondo del calcio in generale è abituato a digerire anche il peggio. Però se la guardiamo dal punto di vista dell’ottica giudiziaria, questo è un episodio che cambia molte cose.