Il 14 novembre si celebra la Giornata Mondiale del Diabete, una ricorrenza importante per sensibilizzare il mondo sulla necessità di garantire a tutti l’accesso alle cure. La data non è casuale: coincide con la nascita di Frederick Banting, lo scopritore dell’insulina che, nel 1921, ha rivoluzionato la gestione del diabete mellito permettendo ai malati di sopravvivere.
Oggi, il diabete è riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come una priorità sanitaria globale. La malattia colpisce oltre 530 milioni di persone a livello mondiale, un numero che potrebbe salire a 640 milioni entro il 2030. In Europa, sono circa 60 milioni gli adulti affetti, mentre in Italia si parla di oltre 3,5 milioni di persone, secondo i dati ISTAT del 2020. Il diabete di tipo 2, che rappresenta il 90% dei casi, è strettamente legato a stili di vita non sani ed è spesso prevenibile attraverso una corretta alimentazione e attività fisica. Il diabete di tipo 1, invece, è una malattia autoimmune che richiede l’uso quotidiano di insulina e rappresenta circa il 10% dei casi.
Nell’ambito della Giornata, tante le iniziative promosse da privati e istituzioni per sensibilizzare sul tema. Tra queste, spicca quella organizzata da AMD, Associazione Medici Diabetologi, che alle 15 del 14 novembre presso la sala Zuccari del Senato organizza l’incontro “Facciamo squadra attorno al diabete”. Sul tema è intervenuto sulle pagine di Prismag Riccardo Candido, presidente dell’associazione, con cui abbiamo discusso dello stato dell’arte del trattamento della patologia.
Cosa organizza l’AMD per la Giornata Mondiale del Diabete?
«Noi non vogliamo che si parli di diabete un solo giorno all’anno, che lo si faccia tutti i giorni. La Giornata è un momento che contribuisce a fare sensibilizzazione e a riportare a galla l’attenzione sulla patologia. Il tema di quest’anno della International Diabetes Federation per la Giornata mondiale del diabete è “salute e benessere”. Benessere non solo fisico, ma anche quello psicologico, quindi benessere a 360 gradi. Noi come società scientifiche di diabetologia, quindi Associazione Medici Diabetologi e Società Italiana di diabetologia, abbiamo creato una federazione, che si chiama Federazione delle Società Diabetologi Italiane, che ha proprio l’obiettivo, quando si parla di temi a livello istituzionale e sociale, di creare corpo unico verso le istituzioni e verso le persone con diabete. E proprio nell’ambito della giornata mondiale del diabete avremo due momenti clou: il primo sarà la firma di un protocollo d’intesa con la Lega professionistica del ciclismo, con l’obiettivo di dire che il movimento, l’attività fisica, la riduzione della sedentarietà sono tematiche che prevengono la patologia, ma che anche qualora la patologia sia si sia già verificata contribuiscono a curarla e a gestirla meglio. E poi avremo un incontro in Sala Zuccari presso il Senato alle 15. Il tema in questo caso sarà “Facciamo squadra attorno al diabete”. Il messaggio di fondo è che la persona con diabete non debba mai essere lasciata sola. Per curare al meglio il diabete ci vuole un lavoro di squadra tra i professionisti, un lavoro multiprofessionale, multidisciplinare, con un ruolo importante del team composto da diabetologi, infermieri, dietisti, podologi, psicologi, oltre che dalle associazioni di volontariato; tutti supportati da istituzioni e politica. Solo creando sinergie tra tutti questi interlocutori e lavorando di squadra si riesce a migliorare la qualità di cura della persona col diabete e far sì che la persona con diabete si senta parte di una squadra che la supporta nella gestione quotidiana della malattia e non la lasci sola».
Qual è il ruolo del Servizio sanitario nazionale rispetto appunto alla gestione del diabete? Ci sono carenze?
«Il sistema sanitario nazionale è stato ed è tuttora fondamentale nella cura del diabete. Noi siamo l’unico Paese al mondo che ha una legge dedicata al diabete, che prevede la presenza di punti capillari, i centri diabetologi diffusi su tutto il territorio nazionale come punti di riferimento per la cura del diabete. E grazie a questi modelli organizzativi, ovviamente in integrazione con l’attività della medicina generale, che possiamo dire che i dati internazionali certificano l’Italia come lo Stato dove si cura meglio questa patologia. Siamo in un momento di difficoltà per via del numero crescente di persone che sviluppano il diabete e quindi l’aumentata richiesta e l’aumentato bisogno delle terapie, che sta mettendo a rischio l’assistenza garantita dal Sistema sanitario nazionale. Avrà certamente sentito parlare del problema delle liste d’attesa, che anche in ambito diabetologia ha iniziato a essere una criticità, tant’è che i dati ci dicono che poco più di un terzo delle persone che ha il diabete ha un accesso a una struttura specialistica e è sempre più bassa la percentuale di soggetti che si sottopongono a quelli che sono gli esami di screening. Vanno rivisti in parte alcuni modelli organizzativi e alcuni modelli di gestione per evitare che si vada incontro a una ridotta possibilità delle persone con diabete di curarsi o, peggio ancora, il ricorso a strutture private, dove a quel punto potrà curarsi solo chi economicamente avrà l’opportunità, a scapito poi di chi, dal punto di vista economico, non riuscirà a permettersi una presa in cura e una valutazione presso le strutture specialistiche diabetologiche. Al momento, non siamo arrivati a questo punto. Il rischio, però, è forte. È un tema sul tavolo delle società scientifiche e delle istituzioni: bisogna far sì che il sistema sanitario nazionale continui a garantire a tutte le persone con diabete un’assistenza qualificata, equa, di qualità in qualsiasi regione del nostro Paese. C’è una grande disomogeneità regionale nell’offerta, nella organizzazione, che rendono differente l’opportunità di curarsi delle persone con diabete se stanno al sud rispetto che al nord. È tutto molto parcellizzato. Ogni regione declina a modo suo le opportunità, sia in termini di strumenti tecnologici, quindi monitoraggi, microinfusore, sia di nuove opportunità terapeutiche, nuove insuline. Ci sono regioni in cui viene data un’opportunità più universale, altre in cui ci sono restrizioni e questo rende meno equo l’opportunità di cura».
L’aspettativa di vita di un paziente diabetico differisce da una persona sana? Se sì, in che modo?
«Grazie al progresso delle innovazioni farmacologiche, ma anche tecnologiche, le persone con diabete di tipo 1 invecchiano come le altre. Prima dell’arrivo dell’insulina, ma anche con l’utilizzo di insuline di vecchia generazione, la durata di vita media delle persone con diabete di tipo 1 era sensibilmente più bassa. Invece adesso noi, considerando che tale patologia compare più frequentemente in età molto giovanili tra 0 e 18 anni, abbiamo persone di tipo uno che hanno 40, 50, 60 anni di diabete di tipo 1. Ovviamente la gestione richiede un impegno che tende a essere maggiore con l’andare avanti dell’età, perché più si è avanti con gli anni e meno si è proni alla gestione di alcuni strumenti tecnologici che possono aiutare la gestione della malattia. L’invecchiamento col diabete in genere consente una buona qualità di vita: le persone sono in grado di poterlo gestire con una certa autonomia. Se ben curato, l’aspettativa di vita è uguale a quella delle persone che non hanno il diabete. Se invece il diabete non è ben controllato, c’è un maggior rischio di accelerazione dell’invecchiamento. Questo con particolare riferimento a quelle che sono le malattie neurodegenerative, in particolare il decadimento cognitivo. Forme neurodegenerative come l’Alzheimer tendono a essere più frequenti nelle persone che hanno sviluppato e che hanno il diabete rispetto alle persone che non hanno il diabete. L’altra cosa che può in qualche modo rendere più difficile l’invecchiamento è se si sono sviluppate delle complicanze, in particolare retinopatia, neuropatia o malattia renale, che in qualche modo impattano maggiormente con la qualità di vita nella persona anziana. Dipende sempre da come controlla».
Come si è evoluta la terapia negli ultimi anni?
«Abbiamo insuline di nuova generazione che, oltre ad essere più efficaci, hanno un minor rischio di ipoglicemia e hanno un numero di somministrazioni inferiore rispetto a quello che era in passato. Il futuro ci offrirà anche l’insulina settimanale: una di queste è stata approvata poco prima dell’estate dall’autorità sanitaria statunitense, il prossimo anno dovremmo averla a disposizione anche qui. Per quanto riguarda l’innovazione tecnologica, abbiamo strumenti di monitoraggio della glicemia in tempo reale e pompe di infusione di insulina che si “parlano” tra loro, andando a formare quello che si chiama il pancreas artificiale, che rende il controllo della glicemia ma anche la gestione del diabete più semplificato, migliorando la qualità di vita, garantendo anche una maggiore libertà nella gestione della malattia e nella gestione delle proprie attività quotidiane. Per quanto riguarda poi il diabete di tipo due, anche qui abbiamo innovazioni farmacologiche che, oltre ad abbassare la glicemia, hanno un effetto protettivo su organi come il cuore e il rene. Sono farmaci intelligenti, che hanno modificato la storia naturale della malattia. Allora il futuro ci porterà a insuline sempre più intelligenti, che si attivano solo quando la glicemia sale; dal punto di vista degli strumenti tecnologici ci saranno dispositivi sempre migliori. Altri ambiti di innovazione sono quelli del trapianto di isole pancreatiche e di cellule staminali. Ma qui siamo nell’ambito della ricerca».
Gli esperti da tempo parlano di “ultimo miglio”, riferendosi al raggiungimento di una cura. Ma quanto è lungo, questo miglio?
«È difficile dirlo, non voglio dare false speranze. La ricerca è ad ampio raggio e su diversi aspetti, dai trapianti di cellule staminali al trapianto di cellule protette dall’eventuale attacco del sistema sanitario senza necessità di terapie anti rigetto, oltre agli anticorpi monoclonali che prevengono il diabete. Alcuni di questi ultimi sono già stati approvati dall’autorità sanitaria americana e presto arriveranno da noi. Sono tutte aree di ricerca che stanno facendo grandi progressi. Prima o poi ci arriveremo: se anche il diabete è già stato sviluppato, e quindi la patologia è già comparsa, con le innovazioni terapeutiche e tecnologiche di oggi si riesce a conviverci con una buona qualità di vita, continuando a coltivare i propri sogni nella quotidianità»