Fonderie, miniere, pesca. Ma anche agricoltura, automotive, materia prime. E ovviamente: energia. Per dirla con una battuta: la rivoluzione ambientalista non sarà un pranzo di gala. O meglio ancora, per dirla con gli economisti, non sarà un “pasto gratis”. Ormai è sulla bocca di tutti: governatori di banche centrali, ministri del tesoro, analisti finanziari. È l’inflazione “green”.
L’inflazione verde
Cosa significa? Che se i governi di mezzo mondo riconoscono l’importanza dell’azione per il contrasto ai cambiamenti climatici e spingono ogni angolo dell’economia a decarbonizzare – tra incentivi, disincentivi e divieti – tutti i settori devono cambiare rapidamente. Dalle industrie dell’acciaio alle automobili passando all’allevamento non c’è altra scelta che cambiare il modo in cui si produce e, in definitiva, ciò che si vende. Diversi osservatori internazionali l’hanno già definita una “transizione”. Non si sa quanto rapida, ma certamente disordinata. La cui principale conseguenza arriva dritta al portafoglio dei consumatori finali. Due esempi? Produrre vetro senza avvelenare il pianeta costa il 20% in più. L’acciaio “pulito” costa fino al 30% in più. L’unico aspetto su cui l’intellighenzia finanziaria mondiale è in disaccordo riguarda i tempi.
Quanto cosa la transizione ecologica: una questione di tempi
Per il numero uno della Banca d’Inghilterra, Andrew Bailey, affrontare il cambiamento climatico comporta rischi di inflazione elevati se si fa troppo poco e troppo in ritardo. Per Larry Fink, capo del gigante degli investimenti BlackRock il rischio aumento dei prezzi si corre nel caso opposto: ovvero, se si corre troppo veloci.
Litio, rame, cobalto, alluminio: l’aumento generalizzato dei prezzi
In quale direzione? Per esempio generando una sorta di dissonanza cognitiva fra aspettative e risultati: se gli incentivi pubblici e le normative spingono la domanda di materiali e materie prime necessarie a realizzare tecnologie di ultima generazione a minor impatto ambientale, ma contemporaneamente altre regolazioni pubbliche e standard d’investimento finanziari (come gli Esg, Environmental, social governance) puniscono pesantemente le strutture dove quei materiali si reperiscono – miniere, fonderie e altri impianti assolutamente lontani dal “carbon free” – ecco lo tsunami in arrivo. È il caso del litio, del rame, nichel, cobalto o dell’alluminio. Fondamentali per le tecnologie che servono alle energie rinnovabili (eolico, solare, batterie elettriche etc.) ma prodotti ed estratti ancora alla “vecchia” maniera. Non è un caso che il prezzo del carbonato di litio sia triplicato negli ultimi 12 mesi. Quello del rame è raddoppiato.
Rivoluzione ambientale: chi paga?
C’è chi ritiene che questo sia il prezzo da pagare per aver agito troppo tardi. Chi pensa sia un fenomeno temporaneo destinato a rientrare. Chi ancora, come l’economista francese Jean Pisani-Ferry, che realizzato modelli sugli scenari climatici, stima che l’impatto sull’economia mondiale di un rapido passaggio verso una vera sostenibilità sarebbe simile allo sconvolgimento della crisi petrolifera del 1973, che all’epoca innescò un periodo prolungato di inflazione a spirale. Come che sia per ora nessuno risponde all’unica domanda giusta: chi pagherà?