Dopo il “caso Lazio” la Serie A aveva promesso serietà sulle quarantene e tamponi. Ma i club in dissesto finanziario hanno già rinunciato ai buoni propositi
di redazione
“Passata la festa, gabbato lo Santo”, che nel mondo iper professionistico (ma anche un po’ artigianale) della Serie A italiana si può tradurre in “passato lo scandalo, si torna all’antico”. Lo scandalo era quello sollevato dalla procura di Avellino per i tamponi della Lazio prima positivi, poi negativi, quindi ancora positivi in un balletto su cui i magistrati stanno cercando di fare chiarezza prima che anche la giustizia sportiva dica la sua. Un guaio di immagine, oltre che dalle ricadute sanitarie non facilmente prevedibili, che aveva convinto i presidenti a promettere a tutti, Governo compreso, che la lezione sarebbe stata mendata a memoria e avrebbe provocato un radicale mutamento delle abitudini. Tradotto: basta quarantene soft a casa, versione ultralight di quanto deciso in giugno pere garantirsi il via libera al ritorno in campo, e soprattutto centrale unica dei tamponi così da azzerare disparità di trattamento. Trascorso un mese esatto dallo scoppio del caso Lazio i buoni propositi sono rientrati. La quarantena con isolamento del gruppo squadra non è mai passata anche perché le società che hanno a disposizione foresterie e centri sportivi adeguati sono la minoranza, i tamponi centralizzati anche. Il motivo? Costano troppo e i club che già sono alle prese con una situazione finanziaria pre-fallimentare causa Covid tirano la cinghia su tutto. E’ stato calcolato che nella prima fase (quella estiva) ogni club abbia sborsato mediamente 160.000 euro per pagare i test ogni quattro giorni ai propri calciatori. In autunno la frequenza e i costi sono leggermente diminuiti, ma di affidarsi a un centro unico non se ne parla. I preventivi hanno spaventato i padroni del vapore calcistico. Avanti tutta in ordine sparso. All’antica. Fino al prossimo scandalo e alla prossima promessa.