Il primo sindaco leghista di Milano ma con un “cuore socialista”. Il primo eletto direttamente dai cittadini. Che ha gestito la difficile fase post Tangentopoli. Uomo onesto e “persona per bene” (e ci mancherebbe). Leghista atipico per quelli di sinistra, partigiano atipico per quelli di destra. La morte di Marco Formentini ha portato con sé l’immancabile beatificazione postuma, da una parte, seguita a ruota dall’astio dopo qualche ora. In Italia è quasi un genere pubblicistico-letterario. Rinunciando, come sempre alla complessità. Non parliamo solo delle battaglie strettamente politiche che divisero la Milano degli anni ’90. Due soprattutto: quella su “sicurezza e degrado”, per semplificare, con i manifesti elettorali “un voto in più alla Lega, un albanese in meno a Milano” e l’impegno della sua giunta per impedire ai senzatetto di sentire il calore che veniva dalle grate della metro. Oppure lo scontro a viso aperto con i centri sociali e in particolare con il Leoncavallo, con Formentini artefice indiretto dell’ultima fase antagonista di Milano dagli anni Settanta in poi. Parliamo invece delle “visioni” per la città. Positive, come il recupero del Parco della Cave consegnando l’area verde alla gestione di Italia Nostra; la pedonalizzazione dal Duomo a San Babila; o ancora la forza politica di sfidare – unico all’epoca – Roberto Formigoni sui tema dei rifiuti chiamando in giunta Walter Ganapini, Verde, assessore all’Ambiente, contro il parere della sua coalizione. E rifiutando, per l’appunto, il sistema delle discariche per introdurre la raccolta differenziata. Andò a colpire interessi precisi, come quello del ricchissimo business della discarica di Cerro Maggiore, di proprietà di Paolo Berlusconi, e all’epoca ci voleva coraggio. Ma anche errori clamorosi. Fra gli altri quello di abbandonare la politica delle linee metropolitane per distaccarsi dalla giunte precedenti e sposare le linee metrotanviarie. Forse fu proprio una delle eredità “culturali” di Mani Pulite a portarlo a questa scelta, visto che la M3-linea gialla era costata quattro volte tanto rispetto a standard esteri a causa di tangenti e mazzette. Ma per la città un errore grave. Che però racconta anche un altro aspetto della medaglia: era una politica municipale che ancora aveva grandi visioni, in grado di sognare “rivoluzioni”. L’ex sindaco Albertini – successore di Formentini – va in giro a dirlo da un paio d’anni: la Milano tanto decantata come “modello”, prima del Covid, e che piace soprattutto al centrosinistra, l’abbiamo voluta e costruita noi. Ha ragione. I grandi progetti urbani, i piani regolatori, come del resto Expo e il suo futuro (Moratti) sono figli di quelle stagioni. Oggi rimangono le Olimpiadi 2026 su cui tutti scommettono, soprattutto dopo la pandemia. È un asso nella manica, dicono. L’unico, per ora, in una manica bella stretta.