Nove maggio: questa è la data limite per la fine della guerra di Putin. Siamo ormai entrati nella quarta settimana delle operazioni militari russe in Ucraina – avviate la notte del 24 febbraio, doloroso corollario di un conflitto che va avanti dal 2014 – e la stanchezza di guerra inizia a farsi sentire.
L’impressionante mole di risorse stanziata dal Cremlino per l’offensiva in Ucraina si sta consumando, in termini di uomini e mezzi. Dal paese, ufficialmente strettosi intorno al suo leader col discorso allo stadio Luzhniki di Mosca per l’anniversario dell’annessione della Crimea, continuano a trapelare notizie di malumori, espressi con la voce – dei pochi coraggiosi che scendono in piazza a protestare – e coi piedi – dei più numerosi che prendono un treno per espatriare.
A Kiev si fa strada l’idea che un tracollo finanziario ed economico sia imminente nel paese nemico, e con esso quello militare russo ai confini. Questa ipotesi è stata ventilata dal capo di gabinetto del presidente ucraino, Oleksiy Arestovich, che ha dichiarato: “Penso che entro maggio, dovremmo avere un accordo di pace. O ci sarà un accordo di pace raggiunto rapidamente, in una o due settimane, con il ritiro delle truppe e tutto il resto, oppure ci sarà un tentativo di mettere insieme alcuni, diciamo, siriani, per un secondo round e, quando avremo respinto anche loro, un accordo entro metà aprile o fine aprile”.
Anche a Mosca inizia a prendere piede l’auspicio che la guerra finisco presto, possibilmente entro l’inizio di maggio. Dopo la celebrazione dell’ottavo anniversario dell’annessione della Crimea, Putin il prossimo 9 maggio potrebbe accorpare le celebrazioni per i 77 anni della vittoria sulla Germania nazista nella Seconda guerra mondiale con quelle della “denazificazione” dell’Ucraina in questi giorni.
Adnkronos avrebbe appreso da fonti russe di questa “ragionevole speranza” di Putin di portare a compimento l’”operazione militare speciale” entro questa scadenza, rendendo così ancor più suggestiva la tradizionale parata militare sulla Piazza Rossa.
Il 9 maggio sta dunque assumendo sempre più i tratti di una giornata campale. Da un lato, il potenziale V-day totale (o meglio, Z-day, vista la “Z” comparsa sui carri armati russi in Ucraina che sta per “Za pobedu”, “Per la vittoria” in russo) che incoronerebbe la ventennale autocrazia di Putin con la gemma della “piccola Russia” – così in epoca zarista erano etichettati i domini ucraini.
Dall’altro lo spetto di un altro pantano: se entro la fine di aprile non dovesse profilarsi una exit strategy per riportare le truppe in patria, la tradizionale parata del 9 maggio rischierebbe di rievocare i fantasmi del disastro afghano in epoca sovietica.
I più anziani in Russia hanno ancora in mente le “statua di sale” – era usanza della propaganda sovietica intagliare gigantografie del volto del segretario generale nel granito, ma anche nel sale – dei predecessori di Gorbacev: Andorpov e Černenko. Impettiti in divisa ufficiale, con la stessa postura del corpo nel veder sfilare parate di soldati in marcia sulla Piazza Rossa o riposti nelle bare di ritorno dall’Afghanistan.
Essere ancora coinvolti nella guerra il 9 maggio rischia di essere un pesante contraccolpo per l’immagine di un paese che in Ucraina avrebbe già perduto più di 7mila soldati. Veder marciare a Mosca anziani reduci in alta uniforme, mentre l’avanzata dei coscritti nelle principali citta ucraine arranca, rischierebbe di rasentare il ridicolo per un leader come Putin che ha sempre fatto della propaganda un tratto distintivo della propria immagine.
Putin ha fatto sfoggio di tutto il repertorio nazionalista e della visione storica russa nei giorni a cavallo dell’invasione, che il Cremlino ha bollato come “operazione di denazificazione e di demilitarizzazione”. Ha invocato “un’azione di coraggio” per difendere le repubbliche autoproclamate, in cui i “neonazisti” di Kiev starebbero perpetrando un genocidio. Ha fatto ricorso “alla fedeltà alla madrepatria e a suoi interessi” e ai “successi degli eroici militari russi”. Ha parlato di “fratelli da risollevare in Crimea” a cui “donare l’anima, come è scritto nella Bibbia”.
Tutti concetti che stridono con la realtà di una guerra che lo Zar deve chiudere il prima possibile.