Domenica 12 giugno sarà election day. Il Consiglio dei ministri ha scelto quella data per le elezioni amministrative in 970 comuni e per il referendum sulla giustizia proposti da Radicali e Lega. Tra tre mesi gli elettori saranno chiamati alle urne, ma già adesso la politica ha iniziato le manovre che tra un anno porteranno il paese alle elezioni. Non c’è più pandemia o guerra che tenga: sarà campagna elettorale permanente.
Antipasto elettorale
Eccezion fatta per Genova e Palermo, la tornata amministrativa non sembra regalare piatti forti. Si voterà in 22 capoluoghi di provincia: tra cui Alessandria, Belluno, Como, La Spezia, Lucca, Messina, Monza, Oristano, Padova, Parma, Taranto e Verona; e in 4 capoluoghi di Regione: L’Aquila e Catanzaro, oltre alle già menzionate Genova e Palermo. Oltre otto milioni di cittadini chiamati al voto sono comunque un buon antipasto in vista delle politiche che si consumeranno la prossima primavera.
Un discorso analogo anche per i cinque referendum popolari abrogativi (dichiarati ammissibili dalla Corte Costituzionale il 16 febbraio e l’8 marzo scorso). Opinionisti e addetti ai lavori danno poche chance ai quesiti di raggiungere il quorum, ma lo sguardo dei partiti è ormai oltre: punta alle elezioni politiche, alcune mosse lo dimostrano.
La politica alle grandi manovre
Per prima cosa, tutti i partiti hanno deposto le armi sulla scelta della data, aprendo a un corridoio – tutt’altro che umanitario – che conduca al 12 giugno. La proposta di un voto dopo la fine della scuola e accorpando in un’unica giornata amministrative e referendum – in modo da risparmiare sulla doppia apertura dei seggi e da dare qualche chance in più al referendum – era stata avanzata da Forza Italia, trovando l’immediato appoggio del centrodestra e del Movimento, e senza incontrare particolari opposizioni dal Pd.
Apparentemente, tra i partiti che compongono la maggioranza nel governo Draghi vige la concordia. Ma è solo apparenza in superficie. Le schermaglie interne all’esecutivo sono iniziate già da tempo, e l’elezione del presidente della Repubblica non ha fatto che esacerbarle. Ne sono una dimostrazione le recenti uscite di Conte che restringe il margine di manovra di quel Campo largo invocato dal segretario dem Letta; la celebrazione delle turbolenze interne al centrodestra emerse al non-matrimonio di Berlusconi con Marta Fascina; e perfino il silenzio assordante post-Polonia di Salvini.
Sotto l’ombrello del governo tecnico delle larghe intese, i partiti si sono mossi sotto traccia. Una condizione che non sarà più possibile da qui al prossimo anno.
Campagna con vista 2023
La road map è tracciata e segna tante tappe ravvicinate che portano alla prossima primavere.
C’è chi, come Annalisa Cuzzocrea su La Stampa, guarda con tristezza a “una campagna elettorale che durerà un anno e non conosce timidezze, neanche davanti a un passaggio della
storia che dovrebbe congelare gli interessi di parte“.
E chi come, come Giuliano Ferrara in un editoriale su Il Foglio di tanti anni fa, avrebbe visto in questa ripresa di coscienza dei partiti – a suon di talk show, schermaglie e promesse – “il sale della democrazia parlamentare“. Dopo due anni di intervallo, la fine della ricreazione pandemica fa suonare la campanella dei partiti, mai come in questa legislatura poco protagonisti dell’azione del governo. Con buona pace della guerra in Ucraina, contesto che non vede l’Italia e i suoi apparati protagonisti, e che, fatte salve dichiarazioni di facciata, non rientra nelle priorità dei partiti.
La messa a terra del Pnrr, la riforma della giustizia e l’approvazione della Legge di Bilancio sono solo alcuni terreni dello scontro finale per cui i partiti hanno già iniziato ad affilare le armi. Sul cronoprogramma del governo Draghi incombe il cronometro della politica: manca meno di un anno alla resa dei conti.
Meloni e Letta, Conte e Salvini, Berlusconi e Renzi: le facce sono le stesse, ma dopo due anni di virologi e tecnici, assumono una luce diversa.