Lo scorso 5 aprile il Senato ha stato approvato una legge sull’istituzione della “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli alpini”. E’ stato scelto il 26 gennaio, anniversario della battaglia di Nikolaevka del 1943, quando i soldati italiani – insieme con tedeschi e ungheresi – riuscirono ad avere la meglio sull’Armata rossa che li stava accerchiando.
La scelta di commemorare un evento che rimanda all’invasione nazifascista dell’Urss ha generato molte polemiche da parte di storici e attivisti. La Sissco, Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea, ha diffuso una nota per esprimere preoccupazione sulla scelta di una data che “non si collega all’intera storia e all’impegno anche umanitario del Corpo, bensì ne isola, celebrandola, un’impresa militare, condotta all’interno di una guerra di aggressione dell’Italia fascista”.
Abbiamo chiesto al professor Fulvio Cammarano, docente di Storia contemporanea all’Università di Bologna e presidente della Sissco dal 2016 al 2019, di commentare questa scelta della politica in materia storica e di memoria pubblica.
Professore, perché una “Giornata nazionale del sacrificio degli Alpini” è sbagliata?
Non è sbagliata in sé, ma l’idea di sacrificio va valutata attraverso l’utilizzo di informazioni competenti. A parte la critica generale all’eccesso di date simboliche che ormai non hanno alcun tipo di impatto reale nella società e nell’opinione pubblica, ma servono semplicemente ai politici per cercare di dare dei segnali a pezzetti di società civile o lobby. Se si vuole onorare l’intensa attività degli alpini a sostegno della società civile e riconoscergli un ruolo importante nella storia, è evidente che non si può individuare quella data, chiaramente collegata a una guerra fascista.
È incomprensibile come, fra le tante date possibili (per esempio quella della fondazione del corpo, il 18 ottobre 1872), si va a individuare una battaglia. Io spero si tratti semplicemente di ignoranza, visto che è una battaglia in cui gli alpini si sono resi protagonisti. In tal caso si tratterebbe di una decontestualizzazione, che è l’opposto di quanto dovrebbe fare la storia; è come se si esaltassero il coraggio e l’eroismo di un rapinatore che ha resistito a dieci poliziotti. Basterebbe rivolgersi a società di storici, riconosciute e istituzionalizzate, così come ci si rivolge agli esperti per quanto riguarda la salute o l’economia.
Si può fare un parallelo tra la campagna di Russia del nazifascismo e la guerra di Putin in Ucraina?
Il parallelo è un po’ delicato. Si può fare però per quanto riguarda l’aggressione di un paese sovrano nei confronti di un altro. Celebrare un’impresa militare, per quanto eroica possa essere, legata a un’aggressione è indifendibile: lo sarebbe stato anche se si fosse trattato di celebrare la difesa della Patria dall’attacco alleato, ma in quel caso quanto meno non si sarebbe trattato di un’aggressione. Detto questo, è sempre molto delicato fare analogie e parallelismi: servono attenzione, equilibrio e conoscenza dei fatti.
Dove sbaglia la politica rispetto alla storia?
Lo sbaglio sta nel fatto che, rispetto al passato, la maggior parte della classe politica non conosce gli aspetti essenziali delle vicende storiche nazionali e internazionali. Questa mancata sensibilità ha trasformato la storia in una specie di cesto da cui cogliere ogni tanto qualcosa di utile, ma sempre senza il contesto necessario. L’idea che la storia sia una serie di avvenimenti del passato, di aneddoti e di vicende slegate è pericolosissima: a nessuno viene in mente quello che agli storici e forse anche a un semplice cittadino verrebbe in mente, ovvero di chiedersi in quale contesto sia avvenuta questa dimostrazione di eroismo.
Prendere a piacere qualche evento e piegarlo ai propri utilizzi politici ed elettorali è il sintomo del fatto che la storia è diventata politicamente irrilevante in proporzione invece opposta alla rilevanza dell’intrattenimento e dell’interesse che ha presso l’opinione pubblica: si vedano i canali tv dedicati, i romanzi e le fiction. L’esempio classico è quello dell’assenza degli storici da ogni commissione o sede decisionali su queste questioni, al contrario che in passato quando la storia aveva un ruolo fondamentale nella formazione della classe dirigente: fino alla metà del Novecento la capacità critica e l’elasticità mentale della classe politica era formidabili. Questa è solo l’ultima brutta figura in questo senso.
L’uso della storia è uno strumento di battaglia?
Certo. Però è solo perché viene concesso di decontestualizzare il singolo evento, così da ottenere il risultato politico che si vuole ottenere. Ciò non succederebbe se ci fosse un’opinione pubblica sensibile all’utilizzo politico della storia, come metodo e antidoto alle fake news e alle strumentalizzazioni.
Un comunicato stampa dell’Anpi sul massacro di Bucha ha generato molte polemiche. Abbiamo un problema anche con le associazioni che si occupano di memoria?
Non so se ci sia un problema. Credo che le associazioni facciano il proprio lavoro, come da statuto, salvo poi poter essere messe in discussione dai soci stessi. Ma io da un’associazione di parte non mi aspetto ci siano delle posizioni perfettamente corrette e comprensibili, perché l’interesse di parte è dichiarato. I politici invece sono rappresentanti del popolo e hanno il dovere di istruire qualunque atto nel miglior modo possibile, rivolgendosi alla pluralità delle associazioni professionali competenti. L’Anpi e chiunque altro si assuma le proprie responsabilità nell’entrare in una polemica può dire ciò che vuole, un politico no.
Quali sono le politiche pubbliche della memoria che lo stato italiano può adottare?
Lo stato dovrebbe assolutamente sfruttare gli storici nell’individuare le linee strategiche della politica della memoria, con un circolazione di pareri che darebbe anche un’indicazione di merito. La memoria – lo sanno tutti – serve a orientare l’opinione pubblica, creando immagini. Ormai oggi non serve più nemmeno a quello, per l’affollamento di cui sopra. Il punto dovrebbe essere cercare di mettere in piedi delle riflessioni sull’utilizzo di questa memoria che siano occasione di dibattito e analisi critica all’interno della società italiana. Discutere e dibattere quello che la memoria ci lascia, attraverso l’indagine critica della storia. La memoria è calda, soggettiva e problematica, la storia invece è fredda e basata sulla ricerca con il minor grado possibile di coinvolgimento emotivo: noi dobbiamo trasformare la memoria in storia. Questo è il modo per rendere omaggio al passato, rendendolo fruibile all’opinione pubblica odierna. Un’operazione che richiede studio e competenza.