Soprattutto nel dibattito online lo scontro si accende quando si parla di cancel culture e politicamente corretto. Alcuni temi sono sempre più sensibili, ma davvero non si può più dire niente? Su True-News.it un confronto tra opinionisti e intellettuali per capire se davvero, in questo periodo storico, non si possa dire più niente. Dopo Giulio Meotti, ci siamo confrontati con Lorenzo Gasparrini, studioso di filosofia e divulgatore di studi di genere prevalentemente a un pubblico maschile.
Come definiresti la cancel culture?
La definirei come il nome dato a un fenomeno scomodo e mal compreso, che si preferisce raccontare come una forma di censura invece che come una forma di rispetto. Chi chiede di eliminare un dato culturale lo fa perché ancora attivamente usato per discriminare. E si tratta di casi ben precisi, non di una “culture”. Mettere un disclaimer o addirittura eliminare dall’offerta commerciale un prodotto culturale (un libro, un film, o quello che sia) è sostanzialmente ipocrita, perché si preferisce questa banale soluzione a una più importante e diffusa spiegazione di quello che si vede o si dice nel prodotto culturale. Chiedere di non usare un insulto discriminante non ha niente del “cancel” ma è invece un modo evidente di chiedere rispetto e consapevolezza nei confronti di un passato di violenza che non si vuole ripetere.
Il peso di questo fenomeno in Italia è tanto dirompente? È quindi vero, come lamenta una certa parte della popolazione, che “non si può più dire niente”?
Ma per favore. Chi si lamenta di questo fenomeno in Italia lo fa pronunciando esattamente quello che sarebbe richiesto di non dire più e lo fa da qualsiasi fonte d’informazione possibile. Sono stati pure premiati due ipocriti sedicenti comici che hanno mandato in prima serata nella tv pubblica un tremendo elogio del linguaggio discriminante. Questo è un fenomeno dirompente, altro che “non si può più dire niente”.
Se poi nel privato ancora esistono persone che si lamentano di essere chiamate razziste o sessiste perché adoperano certi termini, se la devono prendere con la loro ignoranza e non con una cultura che ha finalmente cominciato a rispettare tutte le soggettività presenti. Scambiare un limite al proprio privilegio per un diritto violato è l’esatto sintomo che non si sta capendo nulla di quello che accade nella società.
Il linguaggio inclusivo spaventa molto chi teme di perdere, usandolo, parte della propria identità. Tu, anche attraverso “Perché il femminismo serve anche agli uomini”, ti rivolgi a una fascia di popolazione con un notevole privilegio. È possibile ripensare il maschile attraverso una comunicazione più attenta alle differenze?
Non solo è possibile, è necessario. Soprattutto gli uomini non si rendono conto che quella che chiamano “perdita della propria identità” è invece il cambiamento di quel racconto sociale che li fa essere il genere che muore prima, che muore peggio, che accetta i lavori più disumani e che si fa usare da qualsiasi potere sociale senza neanche accorgersene. Quel privilegio è pagato a carissimo prezzo, ma molti uomini preferiscono pagarlo accettando l’inganno della tradizionale identità maschile che costruirsi una propria identità smantellando quella. La paura di cambiare è parte di quel falso racconto patriarcale che continua a ingannarli.