Problemi logistici insormontabili, difficoltà nell’approvvigionamento delle forniture e crollo verticale delle vendite. Non sappiamo quale sarà il futuro di Tesla in Cina, ma il suo presente non può che essere plumbeo. L’ultimo scivolone nel quale è incappata la creatura di Elon Musk assesta un durissimo colpo al mito della green economy e all’intero paradigma verde. Cerchiamo allora di ricostruire che cosa è successo oltre la Muraglia, visto che l’intera vicenda potrebbe in un certo senso aver scoperchiato un autentico vaso di Pandora.
Il giallo di Tesla a Shanghai
Lo scorso 10 maggio Reuters ha scritto che il costruttore statunitense di auto elettriche Tesla avrebbe interrotto la produzione nel suo mega-stabilimento di Shanghai. Il motivo: la penuria di alcune componenti necessarie per assemblare le vetture. Una penuria che, per via del rigido lockdown imposto dalla Cina in chiave anti Covid, avrebbe danneggiato il business plan dell’azienda. Abbiamo utilizzato il condizionale perché Tesla non ha confermato l’indiscrezione.
Sappiamo soltanto che il costruttore aveva ripreso la produzione a Shanghai lo scorso 20 aprile ma adesso, a quanto pare, sarebbe sopraggiunto un nuovo stop. In ogni caso il giallo si infittisce. Anche perché il quotidiano South China Morning Post ha svelato che alcuni problemi logistici avrebbero soltanto ritardato la fornitura di componenti nella fabbrica di Shanghai, e che l’azienda avrebbe rassicurato sull’operatività dello stabilimento. Non sono stati forniti ulteriori dettagli.
La caduta libera di Tesla in Cina
Le draconiane misure sanitarie adottate da Pechino, sintetizzabili nel modello zero Covid, hanno fatto registrare molteplici battute d’arresto a Tesla così come a tante altre aziende. Il protocollo sanitario cinese, infatti, ha comportato una riduzione degli acquisti, e dunque la chiusura di fabbriche e showroom, provocando effetti a cascata, tra cui un crollo delle vendite di auto pari al -48% soltanto nel mese di aprile.
I dati pubblicati dalla China Passenger Car Association (CPCA) sono emblematici, ed evidenziano come le vendite di Tesla in Cina fossero già crollate ad aprile del – 98% rispetto al mese precedente. In seguito alla riapertura sopra citata, la fabbrica ha sfornato 10.757 veicoli vendendone appena 1.512. E questo contro le 65.814 vendute a marzo, e segnando il più basso conteggio delle vendite da aprile 2020. La società sperava di aumentare la produzione dell’impianto di Shanghai fino a 2.600 auto al giorno. I blocchi causati dal Covid-19 hanno invece completamente distrutto i piani della società. Pare che Tesla abbia intenzione di restare ferma a un turno per il suo stabilimento di Shanghai almeno per la settimana in corso, con una produzione giornaliera di circa 1.200 unità. Mirerà, invece, ad aumentare la produzione a 2.600 unità al giorno a partire dal 23 maggio.
Il ritiro delle auto
Tesla ha tuttavia rimediato un altro problema. Dalla fine di maggio, la casa automobilistica richiamerà 107.293 veicoli in Cina a causa di rischi per la sicurezza, come confermato dalla State Administration for Market Regulation, massimo organo di vigilanza cinese. Il richiamo riguarda i veicoli Model 3 e Model Y prodotti oltre la Muraglia tra il 19 ottobre 2021 e il 26 aprile 2022.
La causa un difetto relativo al touchscreen centrale durante la ricarica rapida può causare malfunzionamenti e rappresentare un potenziale pericolo per la sicurezza. L’azienda ha promesso di effettuare gratuitamente gli aggiornamenti ai software dei veicoli oggetto di richiamo al fine di risolvere il problema. Ricordiamo che lo stabilimento di Shanghai, conosciuto come Gigafactory 3, produce la berlina Model 3 che il crossover Model Y, tanto per il mercato cinese quanto per l’esportazione. In caso di blocchi, dunque, i contraccolpi si sentiranno anche nel resto del mondo.
L’altra faccia della green economy
E qui arriviamo all’altra faccia della green economy; non solo un modello economico che teoricamente mira a ridurre i rischi ambientali e allo sviluppo sostenibile, ma anche un modello contraddittorio e non privo di zone oscure. Sempre restando a Tesla, hanno fatto scalpore i metodi adottati dall’azienda di Shanghai durante l’ultima ondata di Covid. Ad aprile lo stabilimento ha vietato ai suoi lavoratori di lasciare la fabbrica adottando una sorta di sistema “a circuito chiuso”.
In altre parole, mentre erano rinchiusi all’interno dell’azienda, i lavoratori sarebbero stati costretti a lavorare su turni di 12 ore, sei giorni di seguito, e a dormire nei vari piani dislocati nella struttura. I diritti del lavoro e le violazioni della sicurezza sono state segnalate nello stabilimento Tesla di Shanghai sin dalla sua apertura nel 2018. Le presunte pratiche foraggiate dal marchio statunitense combaciano con l’estrema cultura del lavoro cinese “996”, in cui i lavoratori dovrebbero lavorare dalle 9:00 alle 21:00, sei giorni alla settimana.
Un futuro da riscrivere?
In ogni caso, Tesla è entrata nel mercato cinese senza formare alcuna joint venture con marchi locali. Fin qui l’azienda di Musk è stata in grado di proteggere la propria tecnologia e mantenere tutti i profitti. Le sue auto non hanno tuttavia avuto diritto ai sussidi e sono soggette ad una tariffa di importazione pari al 25%. Ricordiamo, quindi, che Tesla è l’unica casa automobilistica straniera in Cina ad avere nel Paese il pieno status di costruttore, e che la fabbrica di Shanghai è il primo e unico stabilimento straniero di autovetture esente oltre la Muraglia dall’essere gestito da una joint venture.
Ma per quale motivo Tesla ha messo piede in Cina? Per due ragioni. La prima: incrementare il proprio fatturato puntando sulla volontà cinese di rivoluzionare il settore delle auto elettriche. La seconda: sfruttare a proprio favore la necessità di Pechino di adottare un’aggressiva linea green. A quanto pare, Tesla farebbe bene a rivedere al più presto le sue strategie. Perché incollare il proprio successo sull’economia green in questo modo, oltre a far emergere contraddizioni di ogni tipo, sta danneggiando i piani economici dell’azienda.