“Effetto Draghi” addio. Mentre l’esecutivo dell’ex governatore della Banca centrale europea affronta la crisi energetica, la sfida della guerra in Ucraina e il caos nella maggioranza, il quadro macroeconomico si deteriora.
Ed è quasi un contrappasso per il “Migliore”, Mario Draghi, dover assistere nel corso del suo governo a una crisi sistemica tanto importante. Nelle ultime settimane tre dati importanti hanno contribuito a mettere sotto pressione Draghi e il suo governo: la corsa dello spread, il boom dell’inflazione, le ombre sulla crescita con annesso rischio recessione.
Spread a 200: la fine del denaro facile Bce colpisce Roma
In primo luogo, Draghi deve subire da premier il contraccolpo della fine del piano di acquisti avviato durante il suo periodo alla Bce. Il quantitative easing e le dinamiche ad esso seguite hanno avuto l’indubbio merito di fermare le conseguenze rovinose dell’austerità prima e la tempesta macroeconomica del Covid poi. Ma senza slancio strutturale alle economie reali, la situazione che si è venuta a creare è stata molto artificiosa: il sostegno della Bce ai governi ad alto debito, Italia in testa, ha fatto convergere gli spread, primo fra tutti quello tra il Btp decennale e il Bund tedesco, tenendolo a lungo stabilmente in doppia cifra.
Ora che l’Eurotower annuncia la possibilità di uscire dai piani di acquisti anti-pandemia e di tornare ad alzare i tassi, il debito italiano torna a essere prezzato come più rischioso dai mercati. La guerra in Ucraina ha fatto il resto, gettando i Paesi più indebitati dell’Eurozona in una situazione di incertezza. Nell’era Draghi lo spread è tornato a veleggiare attorno quota 200. Dal 13 febbraio 2021, giorno di insediamento del governo Draghi, a oggi, cosa più importante, il tasso di interesse del Btp, ovvero il rischio scontato dagli investitori che puntano sull’Italia, è quadruplicato. Da un tasso medio dello 0,643% di fine gennaio 2021 si è giunti al 3,135% di fine maggio 2022. Nessun effetto Draghi, come ha anche fatto notare con una punta di malizia Carlo Cottarelli in una recente intervista. Il combinato disposto con l’inflazione può inoltre fare partire scenari complicati.
L’inflazione, incubo di Draghi
Negli scorsi mesi, mentre si avvicinava la partita per il Quirinale risoltasi in uno scacco politico per il presidente del Consiglio, su True News sottolineavamo come la lucida consapevolezza di un 2022 segnato da una dura crisi economico-sociale connessa all’esplosione dell’inflazione fosse una delle motivazioni che portavano Draghi a sperare nel trasferimento sul Colle più alto della Repubblica. Dopo la riconferma di Sergio Mattarella, infatti, complice l’esplosione della guerra a Est e il caro-energia l’inflazione è giunta ai massimi dal 1986: 6,9%, per la precisione, nelle ultime rilevazioni.
Aumento degli oneri per il debito, inflazione, stagnazione dei redditi e incertezza politica sulle manovre future stanno paralizzando la ripresa italiana. Il “governo dei Migliori” e Draghi, inoltre, vedono la corsa degli indicatori macroeconomici scontrarsi con la necessità di rivedere uno dei progetti per cui il banchiere romano era stato chiamato a Palazzo Chigi, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr).
Certamente i “Migliori” ci hanno messo del loro. Pensiamo a una misura su tutte: il Superbonus 110%. Draghi ha, a inizio maggio, parlato davanti al Parlamento Europeo criticando in maniera lucida la manovra ereditata dal governo Conte II: “il costo di efficientamento è più che triplicato grazie ai provvedimenti del 110%, i prezzi degli investimenti necessari per le ristrutturazioni sono più che triplicati, perché il 110% di per sé toglie l’incentivo alla trattativa sul prezzo”, ha detto Draghi. Lo stesso Draghi che però nella bozza finale del Pnrr ha garantito alla misura 13,95 miliardi di euro e 4,56 dal fondo complementare, contribuendo così le aziende a una corsa alla collezione di ordini che, sulla scia del boom delle materie prime e crisi delle catene del valore, ha alimentato ultimamente il “doping” al settore.
Rischio recessione
E proprio uno dei fedelissimi di Draghi nel governo, il Ministro dell’Economia e delle Finanze Daniele Franco, ha recentemente avvertito che l’impegno dell’esecutivo per l’anno in corso è quello di evitare la recessione. Sembra finita ogni illusione di “nuovo boom economico” (Renato Brunetta dixit) legato all’effetto Draghi. Il premier stesso, il 12 maggio scorso, era stato molto più conciliante dicendo di non vedere tale rischio come possibile.
Il governo appare bloccato nella sua capacità decisionale, la strategia di Draghi non si discosta molto da quella di Conte (bonus e aiuti selettivi), manca la visione di prospettiva. La bomba sulle bollette e l’energia deprime i consumi, la corsa al ribasso di salari e prospettive economiche fa il resto. La realtà dei fatti è che quell’effetto Draghi che avrebbe dovuto ridare forza, fiducia, speranza e crescita al Paese, secondo una vulgata trasversale nei media e nella politica italiana, si è scontrato con le contingenze e la realtà dei fatti di un Paese in crisi strutturale: per il “governo dei Migliori” trovarsi nella tempesta perfetta mentre si deteriorano le capacità di risposta alla crisi nata dalla somma tra onda lunga della pandemia e guerra in Ucraina sarebbe un durissimo contrappasso. A cui oggi nessun partito della maggioranza pare in grado di opporre contromosse e men che meno un premier attento, complici le divisioni nell’esecutivo, a manovre di piccolo cabotaggio. Ciò di più difficile possa esistere per chi è stato in grado per anni di esercitare il potere in forma diretta e verticale.