Negli ultimi trent’anni l’attività di piantumazione di alberi da parte di aziende ed organizzazioni è aumentata del 288% in tutto il mondo. I motivi sono variegati: dal ripristino delle foreste alla produzione di colture come olio di palma e gomma, dalla fornitura di legname alla lotta contro il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità. Ma il più delle volte quest’azione non è fatta bene: le multinazionali piantano specie inadatte ai luoghi prescelti per i loro progetti e nella stragrande maggioranza dei casi manca totalmente un follow-through per garantire la sopravvivenza degli alberi.
Lo svela un nuovo studio, pubblicato su Nature Sustainability, che rileva come spesso si introducano nuove piantagioni di alberi in biomi incompatibili, dove possono persino distruggere gli ecosistemi esistenti. Meglio sarebbe consentire la ricrescita naturale delle foreste rispetto alla continua piantumazione forzata.
Piantare alberi può far male: il caso
Un esempio è quello che riguarda il colosso petrolifero francese TotalEnergies, che ha annunciato lo scorso novembre la volontà di piantumare 40.000 ettari di alberi nella Repubblica del Congo. Un programma di compensazione per la multinazionale petrolifera, che apparentemente le consentirà di neutralizzare le sue emissioni di carbonio: gli alberi – si calcola – cattureranno circa 10 milioni di tonnellate in 20 anni. Ma l’azienda ha deciso di piantare acacie nell’altopiano di Batéké, regione della savana nell’Africa centrale, e molti esperti pensano che questa specie sia inadatta all’ambiente.
Piantumazione e riforestazione: lo studio
Il problema della riforestazione è aggravato dal fatto che “la maggior parte dei Paesi ai tropici non ha una vera conoscenza di quante piantagioni di alberi e di quanta foresta naturale hanno entro i loro confini”, afferma l’autore principale dello studio, Matthew Fagan, assistente professore di geografia e sistemi ambientali presso l’Università del Maryland, come riporta Fast Company.
I ricercatori hanno esaminato immagini ad alta risoluzione provenienti da aree tropicali di Africa, America Latina, Sud-est asiatico e Oceania, prelevate dallo spazio tra il 2000 e il 2012, identificando sia le foreste naturali che le piantagioni di alberi. “Sono rimasto sbalordito dall’entità del problema“, afferma Fagan. Il team ha scoperto che circa la metà di tutta la copertura arborea dei tropici è costituita da alberi piantati, in molti casi con l’obiettivo di ricavare olio di palma e gomma. Il 92% delle piantagioni si trova in zone importanti per la biodiversità, che viene così minacciata, ma non solo: le piantagioni stanno invadendo persino le aree protette, come i parchi nazionali. In Nigeria, ad esempio, esistono enormi piantagioni di palma da olio e gomma in più di un terzo dei parchi protetti.
Dai tropici alla savana
Un’altra scoperta fondamentale è stata che circa il 14% degli alberi è stato piantato in zone aride, in habitat come savane e praterie: biomi secchi, in cui gli alberi hanno difficoltà a prosperare. Se sopravvivono, gli alberi accumulano acqua e uccidono le praterie. “Il modo in cui piantiamo un albero è importante tanto quanto dove lo piantiamo un albero“, aggiunge Fagan.
Il pericolo in molti di questi programmi è quello del greenwashing, per cui le aziende vantano politiche ambientali progressiste per conquistare i consumatori, a fronte di risultati spesso infondati. Possono tra l’altro essere necessari decenni, persino secoli, prima che i nuovi alberi assorbano il carbonio.
Sarebbe meglio favorire la ricrescita delle foreste naturali piuttosto che piantare nuovi alberi. “Il tasso di ricrescita ai tropici è incredibilmente alto. Si può passare da pascoli aperti a una foresta pluviale chiusa alta 10 metri in 8 anni”, sottolinea Fagan.
Piantare alberi? Manca il follow-through
L’altra parte del problema è costituita dal fatto le aziende, le organizzazioni e persino i governi di solito non controllano gli alberi che hanno piantato. Un altro studio del 2021 ha mostrato che solo il 5% delle organizzazioni divulgava informazioni sul monitoraggio dei tassi di sopravvivenza degli alberi e sulla manutenzione necessaria per mantenerli in vita. Nelle Filippine è stato scoperto che l’80% degli alberelli di mangrovie piantati dal governo non è sopravvissuto.
Cosa fare allora? Sempre secondo Fagan, bisogna realizzare progetti su piccola scala, utilizzando specie autoctone e lavorando con ecologisti locali, poi continuare a monitorarli. Inoltre, servirebbe una migliore regolamentazione da parte dei governi per quanto riguarda la piantagione di alberi e anche una maggiore attenzione da parte dei cittadini, che possono spingere le aziende a migliorare i loro programmi green. “In ogni caso la risposta migliore, nonché la più economica, di solito è semplicemente fare un passo indietro e lasciare che la natura faccia il suo lavoro“, afferma Fagan.
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