La rottura tra Giuseppe Conte e Mario Draghi è il dito, la guerra in Ucraina la Luna. Le dimissioni del governo dell’ex governatore della Bce, respinte da Sergio Mattarella, e la fine della coalizione di unità nazionale è stata solo posticipata. Il clima venutosi a creare nel Paese e in Occidente dopo lo scoppio della guerra in Ucraina ha accelerato la crisi. Se non determinato direttamente.
Draghi e la crisi nella maggioranza
A fine 2021 indicavamo in un semplice dato di fatto il movente che avrebbe spinto Draghi a giocarsi ogni carta possibile sulla (fallita) scalata al Quirinale. Draghi temeva che il 2022, in caso di sua mancata elezione, si risolvesse con un redde rationem. Con l’ampia e innaturale coalizione di unità nazionale venutasi a creare contro il Covid e per architettare il Pnrr da un lato; e con una difficile gestione di un Paese sull’ottovolante per la crisi energetica, l’inflazione, il malumore sociale, le elezioni in continuo avvicinamento dall’altro. Così è stato. La guerra in Ucraina ha fatto esplodere le contraddizioni e Draghi non ha voluto andare oltre.
Per la “riserva della Repubblica“, il leader sistemico chiamato dai partiti a fare da commissario liquidatore di ciò che restava della Seconda e degli albori di Terza Repubblica, il garante del partito euroatlantico imperniato sul Quirinale sarebbe stato troppo rischioso affrontare il trittico costituito dal record storico dell’inflazione nell’era euro, dal ritorno del Paese in deficit commerciale e dalla crisi del lavoro con il record storico di precari, a cui si aggiungevano il contesto fatto di ritirata della Bce dagli stimoli e il vento recessivo sull’Europa.
La fine di un mito
Il mito “taumaturgico” di Draghi si è appannato da tempo e si è esaurito lo stimolo emergenziale. Il presidente del Consiglio ha provato a compattare dietro di sé la maggioranza con un nuovo richiamo unitario legato alla guerra in Ucraina. La quale ha però causato in ultima istanza l’avvitamento della maggioranza. E ora a prescindere da come andrà a finire, anche Draghi si è accorto, parafrasando il Marco Antonio della Yourcenar, di essere mortale politicamente.
Si può avere l’opinione che si vuole su Giuseppe Conte ma non si può negare il fatto che a partire dai primi – timidi! – distinguo del Movimento Cinque Stelle sulla guerra in Ucraina e la strategia dell’invio di armi sull’avvocato divenuto premier prima e capo di partito poi si sia concentrato un fuoco incrociato tutt’altro che indifferente. A cui Conte ha reagito alzando la posta dell’unico fronte su cui il Movimento può provare a esistere: quello delle rivendicazioni sociali.
Un Movimento tornato ai distinguo sull’atlantismo granitico, sulle rivendicazioni della lotta alla povertà e alle disuguaglianze e alle battaglie ritenute abbandonate da Draghi ha usato il gancio dell’Ucraina per smarcarsi gradualmente dall’abbraccio col governo e, in ultima istanza, provocare l’atto decisivo: la rottura con Luigi Di Maio. La nascita di Insieme per il Futuro è stata motivata dal Ministro degli Esteri con la volontà di puntellare il governo. Con la scissione di una pattuglia pentastellata dichiaratamente pro-Draghi, pro-Nato, anti-russa. Ebbene, la mossa ha solo avuto il risultato di liberare le mani a Conte, non più a capo del primo gruppo in Parlamento e riciclatosi come battitore libero.
Il riposizionamento di Conte
Alle spalle, il riposizionamento dei partiti in vista della campagna elettorale che Draghi non ha capito essere pressante per ogni forza politica. La realtà dei fatti è che in assenza di conseguenze dirette, e inauspicabili, sull’infrastruttura fisica e la vita degli italiani il richiamo al “siamo in guerra” suona alla grande massa della popolazione come ben poco attraente.
Draghi dall’inizio della partita del Quirinale prima ha visto disperdersi i consensi bipartisan di cui godeva. Dall’inizio della guerra in Ucraina poi l’avvitamento è stato continuo: sul presidente del Consiglio grava lo spettro della cancellazione totale del mito del “tocco magico” a lui imputato. Questo non cancella che Draghi, sull’agenda italiana post-Ucraina, su alcuni fronti abbia promosso alcune discontinuità: la battaglia europea per il tetto al prezzo del gas e la corsa alla diversificazione dalla Russia sono esempi. Ma erano politiche che potevano essere promosse anche senza l’ansia emergenziale della guerra a Est.
Conte, come appreso da True News, ha agito in forma politica per muoversi su un obiettivo chiaro: togliere a Mario Draghi il potere di compiere le nomine e esautorare i suoi ultimi pretoriani. Calcolo spericolato unitosi al tentativo di smarcarsi dalla maggioranza attuale o dell’immediato futuro prossimo. Trovando nella crisi il gancio per riposizionarsi.
L’Ucraina ha pesato
In sostanza, è l’Ucraina che destabilizza Draghi perché l’Ucraina è l’emergenza invisibile, in patria, che moltiplica le emergenze palesi. Al contrario del Covid-19, che nel 2020 Conte da premier usò per conquistare centralità nell’esecutivo, in questo caso l’emergenza invocata dal premier e dai suoi sostenitori è seconda nelle gerarchie di preoccupazioni degli italiani rispetto alle sue ricadute più implicite. Prima fra tutte quella sul costo della vita, i rincari, l’aumento di povertà e disuguaglianza.
L’uso fatto da Draghi, Di Maio e molti esponenti dei partiti di maggioranza (Matteo Renzi, grande sconfitto della rottura, in testa) dell’atlantismo come fattore coagulante e giustificazione del proseguio del governo non ha colto questo spostamento. Conte ha – come Renzi nel gennaio 2021 – trovato in questo distinguo la scusa per strappare e portare all’attenzione politica del governo temi ritenuti prioritari nell’agenda di un Movimento che proverà da qui alle elezioni a rifarsi una verginità. Reddito di cittadinanza, salario minimo, lotta alla povertà, contrasto al precariato: temi che qualificano chiaramente la nuova posizione di Conte a sinistra del Partito Democratico ma, al contempo, rappresentano la sfiducia per eccellenza all’agenda Draghi.
Teoria del domino
Conscio che alla caduta di una tessera del domino della grande coalizione le altre sarebbero venute via presto, il premier ha presentato le dimissioni formali nel modo più fragoroso possibile. Non per un incidente, come forse avrebbe sperato, ma per una rottura conclamata. A cui ora dovrà, lui in primis, rendere conto al Paese: la maggioranza non era caduta, la crisi non era parlamentarizzata. Restano le scorie politiche della tempesta d’Ucraina. Vero game-changer della politica negli ultimi mesi.