L’ipotesi di Fratelli d’Italia primo partito e di un avvicinamento di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi preoccupa innanzitutto i suoi partner di coalizione, che temono di essere fagocitati, ma può essere anche lo stimolo con cui Mario Draghi può essere spinto dai suoi patroni internazionali a tornare in campo. Aldo Giannuli, storico, politologo e direttore del centro studi Osservatorio Globalizzazione, legge in questo modo la campagna elettorale. Nella quale la leader di Fdi deve guardarsi da un duplice assedio: da un lato, quello dei compagni di coalizione che covano il desiderio segreto di metterla in minoranza; dall’altra, quella di un premier da non dare necessariamente fuori dai giochi.
L’errore di Meloni: guardare solo a Palazzo Chigi
“Giorgia Meloni non sbaglia a rivendicare la leadership del centro-destra in caso di vittoria guidata da Fratelli d’Italia, ma si concentra troppo su un punto: il nodo della presidenza del Consiglio“. Giannuli, parlando con True News legge le dinamiche della campagna elettorale partendo dalla coalizione ritenuta favorita in vista del voto del 25 settembre. “La leader di Fratelli d’Italia”, nota il docente di Storia del Mondo Contemporaneo dell’Università degli Studi di Milano, “rischia di compiere prima del voto lo stesso sbaglio che nel 2018 dopo il voto fece Luigi Di Maio: fissarsi su Palazzo Chigi perdendo di vista il quadro generale“.
Nel 2018, per Giannuli, Di Maio fu spinto all’accordo tra Movimento Cinque Stelle e Lega dopo aver perso tempo rivendicando per sé Palazzo Chigi per diverse settimane, oggi invece la Meloni “rischia di essere messa all’angolo dagli alleati che giustamente hanno capito che la vera partita si giocherà nei collegi uninominali in cui il centro-destra potrebbe fare cappotto” anche grazie ai voti di Fdi e i cui risultati “determineranno la dimensione dei gruppi parlamentari e la forza alla Camera e al Senato necessaria per eleggere il prossimo governo”.
Quale premier per il centrodestra? Giannuli: “Crosetto equilibrato e competente”
Per Meloni, sottolinea Giannuli, la prospettiva è che “Lega e Forza Italia possano ottenere un gruppo parlamentare complessivamente più grande nonostante il cospicuo ridimensionamento di voti e seggi così da interdirle Palazzo Chigi” ma anche “arrivare a un accordo con le forze centriste” per un governo in grado di escluderla.
E soprattutto “la questione della leadership è unicamente politica, perché il centro-destra oltre ai leader presenta poche figure capaci di unire trasversalmente e conquistare l’elettorato“, fermo restando che “l’attuale legge elettorale non prevede di indicare sulla scheda un candidato premier di coalizione”.
L’uomo che per Giannuli potrebbe essere capace di garantire standing e unità, nel centrodestrà, è quello di “Guido Crosetto, che è sicuramente uomo equilibrato e competente, oltre che politico d’esperienza. Ma vedo più probabile che il suo nome esca per posizioni apicali a trattative in corso”.
Il centrosinistra attuale non impensierisce Meloni
Dunque, per Giannuli, “Meloni dovrebbe pensare a espandere il suo progetto politico in maniera tale da rendere possibile un risultato positivo” e soprattutto “evitare che si crei un rassemblement contrario a un centro-destra da lei guidato”, il vero fattore da temere per l’onorevole romana. “Non sto certamente parlando del tentativo di Enrico Letta di ridurre la campagna elettorale a un derby tra lui e la Meloni”, sottolinea Giannuli, per il quale “la proposta politica del richiamo alla deriva autoritaria copre in realtà un problema nella proposta politica del Partito Democratico” in crisi sul fronte “delle alleanze e della ricerca di nuovi punti di riferimento”.
Né, ovviamente, “di Carlo Calenda, Matteo Renzi, Emma Bonino e dei loro variegati progetti di grande centro”. Per Giannuli solo una figura può compattare veramente il fronte anti-Meloni e portarlo alla vittoria elettorale: Mario Draghi. “Due mesi in campagna elettorale sono un’eternità”, avverte Giannuli, che lancia un avvertimento: “non date Draghi fuori partita in partenza” nonostante le sue scelte personali prima e dopo le dimissioni dal governo.
E se Draghi scendesse in campo?
“Un fattore chiave può spingere in estate Mario Draghi a ripensarci e a scendere in campo: quello legato alle pressioni internazionali che hanno contribuito alla nascita del suo governo e fanno riferimento soprattutto agli Stati Uniti”, che non hanno “preso bene” la decisione di porre fine all’esecutivo. “Perso il fedelissimo Boris Johnson nel Regno Unito, instabile il Giappone dopo l’omicidio di Shinzo Abe, non allineate fino in fondo Francia e Germania l’Italia è diventata un’ancora di stabilità filoamericana per Washington nelle ultime settimane”, nota Giannuli, e “il fatto che dagli Usa siano arrivati chiari segnali circa la scarsa fiducia riposta nella Meloni lascia presagire che non sia da escludere l’ipotesi di una candidatura di Draghi o alla guida di una coalizione o perfino a capo di una lista personale”, una “lista civica nazionale attorno a cui sarebbe giocoforza necessario aggregarsi per tutti i litiganti che in queste giornate si confrontano su questioni di piccolo cabotaggio”.
Per Giannuli, “il campo dell’agenda Draghi che dichiara di contrapporsi a Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi può esistere solo con Draghi alla sua guida. Solo Draghi può unire Partito Democratico, Azione, Italia Viva, Più Europa e i piccoli partiti di Giovanni Toti, Luigi Brugnaro, Luigi Di Maio, Clemente Mastella, strappando consensi ai moderati di Forza Italia e imbarcando anche quel che rimane di Liberi e Uguali” in un “fronte unito contro la destra”. Il politologo sottolinea che “Draghi gode di un consenso personale che reputo totalmente immeritato ma che esiste e di cui non si può fare a meno di tenere conto”, capace di spostare sicuramente più voti rispetto a “quanti ne potrebbero spostare figure come Letta o Calenda”. Lo schema “Meloni contro Draghi ha senso come ipotesi competitiva sul piano elettorale solo se il premier scende in campo fattivamente”, nota Giannuli, per il quale questo si risolverebbe nel “duello tra un centro liberale se non pienamente liberista” e una “destra a trazione conservatrice”. Un rimescolamento definitivo del sistema politico a cui aggiungere l’enigma del futuro dei Cinque Stelle e della sinistra. L’effetto-Meloni, in un certo senso, ha dunque già avuto un risultato: spostare a destra l’asse della politica italiana. E arrivare alla de-istituzionalizzazione e alla politicizzazione della stessa figura, finora ritenuta super partes, del premier dimissionario.