Lo avevamo detto la scorsa settimana: l’investimento da 1,5 miliardi di dollari fatto da Tesla nei Bitcoin rischia di creare qualche problema all’azienda. I più evidenti sono quelli legati all’immagine, visto lo scontro tra la natura ambientalista del brand e l’inquinamento causato dalla criptovaluta; a seguire, ci sono quelli prettamente economici. Non è tanto l’investimento in sé, per quanto discutibile, a generarli, quanto il modo e la tempistica con cui è stato fatto: prima Tesla ha puntato una fortuna sui Bitcoin e poi il suo CEO Elon Musk ha dato il suo sostegno alla valuta dall’alto del suo seguitissimo account Twitter, creando una corsa al cripto-oro che le ha fatto segnare un +20%. La mossa ha fruttato un miliardo di dollari a Tesla (più di quanto abbia mai guadagnato vendendo auto in un auto), ma dopo la bisboccia, ecco gli inevitabili postumi della sbornia.
I numeri parlano chiaro: lo scorso primo febbraio un’azione Tesla valeva 839 dollari; oggi è di poco sopra i 700 dollari, anche se la scorsa settimana era scesa a quota 675. A far soffrire il titolo è stato anche il legame con la valuta, nota per i suoi alti e bassi. A un certo punto poi, per qualche motivo, lo scorso 20 marzo Musk aveva dichiarato che il valore del Bitcoin gli sembrava “un po’ alto” – eufemismo? –, causandone l’improvviso crollo: all’epoca un Bitcoin valeva più di 50 mila dollari; nel momento in cui scriviamo è attorno ai 39 mila. Le conseguenze per Tesla e per il suo miliardo e mezzo in Bitcoin si sono quindi fatte sentire subito.
Non è tutto: c’è anche chi, come l’economista Nouriel Roubini, sostiene che le mosse di Musk possano avere i contorni della manipolazione di mercato, su cui la U.S. Securities and Exchange Commission (SEC), agenzia di controllo nata dopo la crisi del 1929, potrebbe indagare. E non sarebbe di certo il primo scontro diretto tra Musk e la SEC. Di solito l’imprenditore ha sempre vinto queste battaglie legali: ci riuscirà anche questa volta?