di Francesco Floris
Sono i pazienti il cui rischio di ricovero in terapia intensiva e probabilità di decesso in caso di infezione Covid-19 aumentano fino a quattro volte rispetto a chi non ha problemi cardiaci. È un fatto che fino al 40% dei pazienti curati nelle terapie intensive soffrissero già in precedenza di insufficienza cardiaca congestizia. È stato un anno duro per chi soffre di patologie cardio-vascolari. Più duro rispetto agli altri. Lo riassume in un’indagine la Società Italiana di Cardiologia Interventistica (GISE) nel suo “Manifesto – Priorità Cardio” in cui con numeri e dati viene fotografata la situazione delle malattie cardiache nell’anno della pandemia.
“Calo interventi fino al 90%”
All’interno si parla di “un drastico calo dell’attività di cardiologia interventistica nei mesi di marzo e aprile 2020 rispetto allo stesso periodo nel 2019”. La riduzione osservata è stata dal 70% fino ad oltre il 90% per le diverse terapie interventistiche. Nel dettaglio: la sostituzione valvolare aortica transcatetere TAVI ha fatto segnare un meno 72%; la clip mitralica è scesa dell’80%; gli interventi per la chiusura auricola sinistra hanno fatto segnare il meno 91% mentre quella del forame ovale pervio PFO si arriva a un drammatico calo del 97%. È quanto emerge da una survey condotta dal GISE sulle emodinamiche italiane che svolgono procedure interventistiche nei mesi di marzo-aprile 2020 e poi replicata nell’ottobre 2020, chiedendo in questa occasione agli specialisti di indicare le barriere che possono incidere sulla ripresa delle attività e impattare negativamente sull’accesso dei pazienti alle terapie. Hanno risposto 130 centri, pari a circa il 50% delle emodinamiche italiane invitate a partecipare, 45 dei quali “ad alto volume ”.
I problemi organizzativi: posti letto e personale
I principali problemi riscontrati? Il 45% dei rispondenti ha indicato barriere organizzative come la disponibilità di posti letto e di personale. Il 35% invece ha evidenziato un numero minore di pazienti, derivante da indicazioni restrittive di accesso in ospedale. Infine, in un altro terzo dei casi i pazienti preferivano non recarsi in ospedale per timore del contagio. Poco meno di un terzo ha evidenziato problemi nella gestione delle liste di attesa. Una criticità, questa, che deve essere affrontata con forza nei prossimi mesi, proprio a causa dei dati illustrati in precedenza: non solo adoperarsi per il contenimento dei tempi delle liste d’attesa per le prestazioni accumulate, ma anche strutturare un programma di azioni organizzative e gestionali per stabilire una prioritizzazione dei pazienti con problemi cardiaci sulla base dei dati clinici. Secondo l’ultimo rapporto della società di consulenza bolognese Nomisma, per un intervento programmato di angioplastica coronarica, la cui attesa media nazionale si aggira normalmente intorno ai ai 20/25 giorni, si dovranno attendere anche quattro mesi. “È arrivato il momento – si legge nel report Gise – in cui le istituzioni sanitarie regionali, i direttori generali e la società scientifica Gise individuino le strategie prioritarie e urgenti per abbattere tali barriere, che si ripresenteranno evidentemente anche nel corso dei prossimi mesi”.
Un contesto “poco incoraggiante” ma sfidante, secondo la Società Italiana di Cardiologia Interventistica, alla luce della pandemia Covid ma anche per i trend nazionali e globali: una pubblicazione del Giornale Italiano di Farmacoeconomia e Farmacoutilizzazione stima che nel 2030 ci saranno 25 milioni di persone nel mondo che moriranno per cause cardiovascolari. In Italia queste patologie sono responsabili del 37% dei decessi e secondo i dati Istat 2017 le malattie ischemiche del cuore, come l’infarto acuto del miocardio e l’angina pectoris, sono responsabili di oltre il 10% di tutti i decessi, mentre gli accidenti cerebrovascolari del 9%. Le Malattie Cardiache Strutturali (SHD) dovute al deterioramento fisiologico delle valvole cardiache, ad esempio, sono tra le patologie più diffuse nella popolazione anziana in Italia – tra i Paesi più longevi al mondo – con il 12,5% della popolazione che ha superato i 65 anni e soffre di malattie valvolari. Equivale a dire oltre un milione di persone: un numero destinato ad aumentare fino a raggiungere i 2,5 milioni di individui nel 2040.
Come del resto permane un tema anche di sostenibilità finanziaria dell’intero sistema sanitario, con ricadute anche sul piano socio-sanitario. Nella penisola la prevalenza di persone affette da invalidità cardiovascolare è pari al 4,4 per mille secondo l’Istat. La malattia impatta poi fortemente anche sulla qualità della vita con notevoli costi economici per la società e il sistema assistenziale.
Un “Piano Nazionale Cardiologico”
Illustrati i numeri – allarmanti – GISE stila una rosa di interventi necessari per farvi fronte. A cominciare dal finanziamento di un Piano Nazionale Cardiologico costruito su alcuni assi precisi: prevenzione, diagnosi tempestiva e adeguato accesso al trattamento delle malattie cardiache “che permettono di avere un impatto positivo immediato ed efficiente su diversi ambiti del sistema e della società”. Puntare sulla riduzione delle ospedalizzazioni fino al 50%, attraverso il trattamento della Malattia Cardiache Strutturali per contrastare il declino funzionale e quindi contribuire al calo dei costi sostenuti dal servizio sanitario. Ma anche “implementare il modello Hub & Spoke a livello ospedaliero, creare un piano di collaborazione fattiva tra ospedale e territorio” e disegnare Percorsi Diagnostico Terapeutici Assistenziali “che tengano conto del livello di urgenza degli interventi”. Ecco secondo Gise alcuni dei passi decisivi per migliorare la gestione diagnostica e l’assistenza terapeutica del paziente, “assicurando l’appropriatezza sin dalla prescrizione diagnostica e aumentando la capacità di accedere il prima possibile ai trattamenti più mirati”. Cruciale diventa un piano di tecnologia e innovazione in campo medico, ma anche sulla fruibilità diffusa delle stesse sia dal lato pazienti che specialisti, istituendo “un fondo per l’innovazione tecnologica”, sul modello di quanto già fatto per i farmaci innovativi, con l’obiettivo di “sostenere l’adozione dell’innovazione nella pratica clinica e ridurre le disomogeneità di accesso tuttora esistenti”.