Perché questo articolo potrebbe interessarti? I giornali hanno diffuso l’autocertificazione, obbligatoria e richiesta a tutti parlamentari eletti, redatta all’inizio della scorsa legislatura, il 21 marzo del 2018, dal neopresidente della Camera Lorenzo Fontana. Fontana, titolare di tre lauree, ha scritto a mano, e per ben due volte, “Inpiegato“, con la “n”, eliminando così qualsiasi dubbio che si possa trattare di un refuso, una svista, uno sbaglio, una distrazione. Ma l’esponente leghista è in buona compagnia: sono tanti gli esponenti politici, di tutti gli schieramenti, che non conoscono le regole di base della grammatica italiana.
Suvvia, non siate iNpietosi con il presidente della Camera Lorenzo Fontana per quell’iNpiegato scritto di suo pugno con convinzione (è ripetuto per due volte) in un suo curriculum. Non conoscere le regole elementari dell’ortografia (davanti a P e B non va mai messa la N, spiegano già alle elementari) è riprovevole, ma è pur sempre meno grave di altre cose da Fontana dette o fatte in passato.
Galetto fu l’iNpiegato
E se proprio Fontana, vergando quel foglio, avesse solo deciso adeguarsi all’Accademia della Crusca quando qualche anno ha sentenziato che “la lingua della politica non ha cessato di inventare o riesumare o rinnovare parole”?.
Impossibile. Le parole nuove della politica entrate nel dizionario italiano sono al massimo ribaltone, complottista, pentastellato, inciuco, larghe intese, convergenze parallele, non-sfiducia. Quell’iNpiegato, invece, è proprio figlio di una mancata conoscenza delle regole di base della lingua italiana.
L’errore di Fontana è da matita blu già alle elementari
Purtroppo, mentre per accedere a un qualsiasi posto di lavoro – pubblico o privato che sia – spesso viene verificata che ci sia una minima preparazione in materia, la stessa cosa non avviene per i nostri rappresentanti in Parlamento al momento della loro candidatura. Eppure un Invalsi per i futuri deputati e senatori non guasterebbe. Si potrebbe evitare di assistere impotenti allo scempio che nei templi delle istituzioni viene fatto della nostra lingua.
La patologia più diffusa – questo caso è uno dei pochi in cui la classe politica è perfettamente sovrapponibile all’elettorato, colpito dalla stessa sindrome – è la “congiuntivite”, intesa non come fastidiosa e lacrimevole patologia oculare, ma come scempio che quotidianamente viene fatto del modo verbale.
Il virus dello strafalcione grammaticale ha colpito indifferentemente a destra e sinistra già nella Prima Repubblica (il giornalista dell’Espresso Guido Quaranta ci scrisse un libro, Scusate, ho il patè d’animo), ma con la calata in Parlamento di nuovi soggetti è dilagato a dismisura e non è stato ancora trovato un vaccino. L’antidoto in realtà ci sarebbe: studiare. Ma non essendo obbligatorio assumerlo, ci siamo ritrovati nel corso degli anni con alcune “perle” destinate a passare alla storia.
Fontana è in buona compagnia
Il più medagliato sarebbe sicuramente il ministro degli Esteri uscente Luigi Di Maio (ex Cinque Stelle, ora in Impegno civico, non rieletto alle ultime elezioni): “se voglio parlare con la Raggi LA telefono“, disse ospite di una trasmissione tv. L’ex vicepremier nel governo Conte I usò una tipica formula dialettale, molto diffusa al sud, italianizzandola (molti strafalcioni hanno questa origine). Ma soprattutto lo si ricorda per una lite furiosa che intraprese con un congiuntivo sui social.
Il tema scelto da Di Maio per lanciare un suo tweet era il cyberspionaggio: «Se c’è rischio che soggetti spiano massime istituzioni dello Stato…», scrisse in un primo momento. Pochi minuti e arrivarono i primi sfottò, così Di Maio eliminò il tweet e ci riprovò: «Se c’è rischio che massime istituzioni dello Stato venissero spiate qual è livello di sicurezza…». A peggiorare la situazione una terza versione che l’allora capo grillino pubblicò sul proprio profilo Facebook. «Se c’è il rischio che due soggetti spiassero le massime istituzioni dello Stato qual è il livello di sicurezza…».
Sempre Di Maio in un comizio disse: «Come se domani presentassi venti esposti contro Renzi. Lo iscrivessi nel registro degli indagati e verrei in questa piazza e urlerei Renzi è indagato». A cui seguì nel gennaio 2018: «Il movimento ha sempre detto che noi volessimo fare un referendum sull’euro»; a giugno in un intervento alla Camera: «I miracoli che hanno fatto con il made in Italy non li avrebbero mai raggiunti. Se non ci sarebbero state varie situazioni come questa»
Prima o seconda Repubblica, la situazione è grammatica
Non ci sarebbe da meravigliarsi se solo ricordassimo che l’Italia è il paese in cui un ministro dell’Istruzione, Francesco D’Onofrio (Udc), alla domanda sulla presunta soppressione dei licei rispose: «Vorrei che ne parliamo».
Vittima sul campo fu il deputato repubblicano e docente universitario Luigi Firpo, eletto nel 1987, che confessò ai cronisti di voler andare il meno possibile alle sedute della Commissione Cultura. Il motivo? Il penoso livello delle discussioni che era costretto ad ascoltare.
Il democristiano Vincenzo Nicotra, avvocato siciliano, nel coniugare il verbo “dire” al passato remoto diceva «dissimo». In più si lamentava del bicameralismo perfetto e del fatto che le leggi dovevano fare la spola tra Camera e Senato; osservando che «bisogna smetterla con questo andare e rivieni».
In un paese in provincia di Novara presentarono il candidato della lista congiunta Pci-Psi, che era un famoso pediatra, come «il più grande pederasta d’Italia». Nel Msi si raccontava che un dirigente giovane, ascoltando Giorgio Almirante citare Le ultime lettere di Jacopo Ortis, avesse esclamato indispettito: «Chi è questo Jacopo Ortis che scrive al segretario senza il mio permesso?».
Bocciati anche in altre materie
Ma torniamo a tempi più recenti. Matteo Salvini ai tempi in cui la Lega era solo Lega Nord asseriva che “il migrante è gerundio, quando migri sei un migrante”. Maurizio Gasparri nel 2016 scrisse in un tweet «chiesimo» invece di «chiedemmo» la disponibilità di Giorgia Meloni. Clamorosa la gaffe con cui il ministero dell’Istruzione, allora retto da Valeria Fedeli, diffuse un comunicato sulle «traccie» con la I della maturità.
Ci sono poi le gaffe non grammaticali (“sarò breve e circonciso”, Davide Trepiede, M5s; “Dublino, in Scozia “, Giorgia Meloni; “Non c’è niente di peggio che il cieco che non vuol vedere”, Antonio Di Pietro, tra le più epiche). Ci aveva visto giusto Ennio Flaiano: la situazione politica in Italia è grave ma non è seria. Forse, aggiungiamo noi, è solo grammatica.