Perché questo articolo potrebbe interessarti? Sono circa tremila le persone apolidi che vivono in Italia. UNIA, l’Unione Italiana Apolidi, è la prima organizzazione in Italia di apolidi per gli apolidi, che mira a migliorare le condizioni di vita di migliaia di persone che vivono in Italia senza la cittadinanza di nessuno stato. True ha raccolto due storie su come si vive da “invisibili”
Si stima che siano circa tremila le persone apolidi, ovvero senza la cittadinanza di nessuno Stato che vivono in Italia. Il numero esatto è difficile da definire proprio a causa della loro “invisibilità”. L’assenza di un’identità legale significa spesso che le persone apolidi hanno un accesso limitato a diritti fondamentali: l’istruzione, cure mediche adeguate, misure di protezione sociale o un regolare impiego e incontrano difficoltà a compiere anche attività più semplici. Come aprire un conto in banca, ottenere la patente o prendere in affitto un’abitazione.
Per iniziativa di quattro giovani che hanno sperimentato in prima persona cosa vuol dire essere invisibili, con il sostegno di PartecipAzione, il programma di INTERSOS e UNHCR che promuove l’integrazione delle persone rifugiate, è nata UNIA, l’Unione Italiana Apolidi.
Apolidi, una vita da invisibili
True ha raccolto le testimonianze di Armando Augello Cupi, 27 anni, e di Karen Ducusin, 28, rispettivamente presidente e vicepresidente della neonata associazione.
Karen vive a Latina, ma è nata a Messina da genitori filippini. «Subito dopo la mia nascita», racconta, «mia madre è stata male e mio padre non mi ha mai registrato all’anagrafe. L’unica prova della mia esistenza in questi anni solo le mie pagelle di scuola perché per fortuna sono sempre riuscita ad andarci».
«Quando ho finito il liceo artistico però non sono riuscita ad iscrivermi all’università perché serviva almeno una carta d’identità, che non può essermi rilasciata», racconta Karen, alla quale piacerebbe studiare Medicina.
«Ma al momento», spiega, «non posso neppure viaggiare perché non potrei né prendere un aereo né andare in un albergo, non avendo un documento. Ho rinunciato anche a viaggi e vacanze non solo con gli amici ma perfino con i miei quattro fratelli che sono invece stati regolarmente registrati all’anagrafe».
Apolidi, vivere nel limbo: la storia di Karen
Poi Karen passa a raccontare i tentativi fatti per dimostrare alle istituzioni la sua esistenza. «Sono andata al Comune di Messina tantissime volte nel corso degli anni, ma mi rispondevano solo “cosa possiamo fare per te?”. Ho deciso allora di provare tramite avvocati e finalmente una di loro mi ha detto che esisteva l’apolidia e che forse avrei potuto essere riconosciuta. Con il certificato dell’ospedale, mia madre è finalmente riuscita a fare una registrazione tardiva al Comune.
Con quel pezzo di carta in mano sono andata all’ambasciata filippina, ma anche qui nessuno è riuscito ad aiutarmi. Avere la madre filippina non bastava, sarei dovuta andare nelle Filippine, un paese che non ho mai visto e dove non conosco nessuno, per ottenere un certificato all’anagrafe, che mi avrebbe forse permesso di chiedere la cittadinanza. Ma io non solo non ho un passaporto per andare nelle Filippine. E non conosco la lingua, ho anche avuto paura di andare e rischiare anche di non riuscire mai più a tornare in Italia».
Karen commenta con amarezza: «Vivo nel limbo senza nessuna protezione e senza avere nessun diritto perché non esisto né per l’Italia, paese di nascita e dove sono sempre vissuta, né per le Filippine, paese di origine dei miei genitori».
Apolidi, una vita senza certezze: la storia di Armando
Armando vive in provincia di Roma. “L’unica certezza che ho è che sono nato a Sanremo. Ho scoperto anni dopo che le altre informazioni sul mio atto di nascita purtroppo erano false. Quando avevo pochi mesi i miei genitori biologici, di cui non conosco neanche la nazionalità, mi hanno abbandonato. E sono stato cresciuto da una coppia italiana”.
Gli ostacoli sul suo percorso di vita gli si presentano quando arriva il momento di iscriversi alle scuole superiori: “Da bambino sono riuscito a frequentare la scuola obbligatoria, ma arrivato in primo liceo sono stato espulso poiché non avevo nessun documento. Tra i 15 e i 18 anni ho vissuto momenti davvero bui nei quali cercavo spesso di capire cosa stesse succedendo. Mentre i miei coetanei potevano proseguire i loro studi, viaggiare e lavorare, io ero fermo nell’incertezza».
“A 18 anni”, prosegue il suo racconto Armando, «ho provato ad andare al Comune per chiedere una carta d’identità, ma il mio nome non risultava e, pertanto, il documento non poteva essermi rilasciato. Ho scoperto che cos’è l’apolidia quando a 19 anni ho deciso di rivolgermi a un avvocato. Grazie alla procedura di riconoscimento dello status di apolide, sono riuscito ad ottenere un permesso di soggiorno. Subito dopo e grazie a una carta d’identità, un codice fiscale, e la patente».
Apolidi, una vita di rinunce
Ma come si vive da ragazzi la condizione di “invisibile”?: “Mi sentivo sminuito rispetto ai miei coetanei per le tante cose che avrei voluto fare e che non potevo per la mancanza dei documenti. E anche quando ho ottenuto lo status di apolide, che mi permetteva di fare quello che volevo, ho dovuto fare i conti con gli anni di liceo persi. Ho iniziato allora a fare qualsiasi lavoro pur di mantenermi: ma il mio sogno era quello di recuperare gli anni scolastici ed iscrivermi all’università. Ci sono riuscito anche se, quando ho scelto La Sapienza di Roma, nel sistema informatico, al momento dell’iscrizione, inserendo “apolide” nel campo “cittadinanza”, non riuscivo a proseguire. Ho temuto di dover rinunciare ancora una volta, ma sono stato fortunato. Ho incontrato una persona nella segreteria studenti davvero speciale, che è riuscita ad aiutarmi e guidarmi in tutto e per tutto».
Armando conta di laurearsi nel 2023. Vorrebbe lavorare a una tesi sul fenomeno del cambiamento climatico collegato all’apolidia. Il corso di laurea che ha seguito è quello di Global Humanities il cui il focus principale è la storia globale e geopolitica di migranti e rifugiati.