Perchè questo articolo potrebbe interessarti? L’esercizio provvisorio è lo spauracchio con cui ogni governo “forza” l’approvazione della Legge di Bilancio. L’esecutivo di Giuseppe Conte e quello di Mario Draghi, anche in fase emergenziale, non hanno fatto eccezione. E Giorgia Meloni, prima donna premier della storia repubblicana, non ha applicato alcuna discontinuità a questa prassi.
“Eviteremo l’esercizio provvisorio” è il mantra con cui la maggioranza di centrodestra accompagna l’accelerata sulla manovra. Sì al superemendamento, sì alla compressione del dibattito, sì alle fiducie “natalizie” per avere la finanziaria entro il 31 dicembre. E evitare il famigerato esercizio provvisorio. Il cui inizio porterebbe sventure e danni al Paese e va scongiurato.
Il nuovo spread: tutti ne parlano, nessuno lo conosce
Come in passato con lo spread, di esercizio provvisorio tutti parlano, senza però esplicitare di che si tratti. Parliamo di una fattispecie ben codificata dalla Costituzione italiana.
Come dice il termine, sostanzialmente consente al governo di avere un’applicazione temporanea delle misure della Legge di Bilancio se l’approvazione non avviene entro il 31 dicembre in aula. A due condizioni. Primo punto: il Parlamento deliberando l’esercizio provvisorio autorizza il governo a riscuotere le entrate e a pagare le spese secondo il progetto di manovra per un massimo di quattro mesi. Cioè dall’1 gennaio al 30 aprile, termine ultimo per portare a casa la legge di bilancio.
Punto secondo, per ogni mese di esercizio provvisorio si applica una frazione pari a un dodicesimo dello stanziamento della manovra in via di approvazione come risorsa spendibile.
Come funzionerebbe l’esercizio provvisorio del 2023
Non è vero che l’esercizio provvisorio porterebbe con sé lo stallo totale dell’economia. Il richiamo è al braccio di ferro che negli Usa si verifica nello shutdown in occasione della mancata approvazione di nuovi tetti al debito pubblico. Nulla di paragonabile avviene in Italia. Semplicemente, alle spese obbligatorie (dagli stipendi ai finanziamenti alle grandi opere già deliberati) viene data libertà di applicazione, mentre a quelle nuove della manovra viene imposto un contingentamento. E, ovviamente, il Parlamento non può approvare nuovi scostamenti di bilancio.
Nulla a che vedere con quanto succede durante lo shutdown Usa in cui gradualmente le attività meno essenziali del governo federale vengono “spente” e gli stipendi non erogati in assenza di accordo politico per porvi fine. Misure come gli aiuti contro il caro-bollette previsti dal governo Meloni, dunque, in caso di esercizio provvisorio non decadrebbero. Semplicemente, ogni mese il governo potrebbe autorizzare spese pari a un dodicesimo dell’importo stanziato da nuovi provvedimenti. Su 21 miliardi di euro messi in campo contro i rincari energetici, ad esempio, ne potrebbe però erogare complessivamente 7 nel primo terzo di anno: 1,75 miliardi al mese. Idem per ogni altra misura, mentre le spese già stanziate non sarebbero toccate.
Uno spauracchio politico
Lo spauracchio dell’esercizio provvisorio è dunque pienamente politico. E funzionale a una fase storica in cui la Legge di Bilancio è un provvedimento non solo italiano: deve essere approvata dalla Commissione Europea; deve, piaccia o meno, “tranquillizzare” i mercati; deve garantire tempi certi. Il vero spauracchio non è nello sfascio dei conti pubblici. Se la manovra non fosse approvata in tempo, la narrazione fatta di tempi certi per riforme, programmi e piani come il Pnrr sarebbe danneggiata. Ogni parte politica protesta – non a torto, diciamo noi – una volta all’opposizione per la compressione dei tempi del dibattito parlamentare (dunque della democrazia) sulla manovra e sull’approvazione a colpi di fiducia della legge-chiave dello Stato. Ma arrivata al governo non cambia, almeno nell’ultimo ventennio, condotta.
Il risultato? Una prassi politica sconvolta in cui emergono quote di emendamenti concessi all’opposizione, maxi-modifiche concordate in Commissione e testi blindati della Legge di Bilancio approvati a colpi di fiducia in Parlamento. Meloni come Draghi nella manovra d’unità nazionale approvata senza dialogo. Come Conte e le due leggi di bilancio “giallorosse” promosse senza confronto. O come quella gialloverde riscritta da cima a fondo con un unico emendamento nel 2018 dopo l’accordo a Bruxelles. Meloni, Draghi e Conte come Gentiloni, Renzi, Letta, Monti e Berlusconi prima di loro: l’esercizio provvisorio come pretesto, la compressione dei tempi come prassi, il giudizio di Europa e mercati il pretesto per ogni accelerazione.
L’esercizio provvisorio? C’è stato ben 33 volte!
Cambiar tutto perché nulla cambi: e pazienza che la storia dica di una prassi, quella dell’esercizio provvisorio, approvata per ben 33 volte dal 1948 a oggi. I governi italiani non sono riusciti a fare una manovra finanziaria entro la fine dell’anno per 33 volte; 20 consecutive dal 1948, anno di entrata in vigore della Costituzione, al 1968. Quell’anno il governo di Mariano Rumor concluse la Legge di Bilancio in tempo per la prima volta.
Sarebbe stato un evento raro: per altre 13 volte, nei successivi vent’anni, l’esercizio provvisorio sarebbe stato realtà. L’ultima fu nel 1988, durante l’unica manovra del governo De Mita. Dal 1988 l’esercizio provvisorio è sparito nei radar, specie dopo l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht e del sentiero stretto per ogni manovra. Di questa pratica restano la nomea sulfurea, il presunto stigma politico, il pretesto per forzare i tempi. E inaugurare la nuova via della democrazia italiana: l’inversione dei ruoli nei lamenti su procedure politiche che ogni governo fa sue per ovviare ai tempi lunghi del processo decisionale. Piaccia o meno, anche così va l’Italia.