Perché leggere questo articolo? Per capire come mai la Turchia è la “superpotenza dimenticata”. Un attore decisivo in molti scenari in cui l’Italia si trova a operare. Emanuel Pietrobon la conosce a menadito e propone un’agenda strategica per l’Italia nei confronti di Ankara
L’ambizioso “Piano Mattei” del governo Meloni, una strategia a tutto campo per Mediterraneo e Africa, ha un convitato di pietra di capitale importanza: la Turchia. Nazione indispensabile per qualsiasi politica mediterranea, di cui oggi analizziamo i legami con l’Italia con Emanuel Pietrobon. E con la quale non a caso Roma si è messa subito in contatto per prestare massicciamente soccorso dopo la terribile vicenda del terremoto del 6 febbraio.
Analista geopolitico per Inside Over, Lanterna Web e diversi altri portali, Pietrobon è specializzato in geopolitica dell’Eurasia. Ha lavorato per think tank di peso come Ambrosetti e WikiStrat. Il suo libro più recente è L’arte della guerra ibrida (Castelvecchi, 2022).
Emanuel, Giorgia Meloni ha lanciato il “Piano Mattei”. Narrazione e azione assieme: ma nell’estero vicino dell’Italia si muove Ankara. Quanto è prioritario oggi il dialogo Italia-Turchia?
“Il dialogo Italia-Turchia dovrebbe essere al centro dell’agenda estera di ogni nostro esecutivo. Siamo legati da un vertice intergovernativo, da una florida sinergia commerciale. L’Italia è il quinto partner commerciale della Turchia a livello globale, ma è il secondo tra i paesi UE. La Turchia è il nostro primo partner commerciale nell’area Medio Oriente e Nord Africa. Ci lega un consistente flusso di investimenti e siamo stati i primi investitori stranieri in Turchia nel 2020. Siamo uniti da intreccio di interessi strategici nelle zone più calde dell’Eurafrasia: Balcani, Caucaso meridionale, Golfo persico, Maghreb, Mediterraneo, Sahel”.
Parola d’ordine, rimettere ordine, dunque…
“Si sente la necessità di dare un formato istituzionalizzato al rapporto con la Turchia, con la quale è essenziale cooperare per ragioni sia politiche – la comune appartenenza all’Alleanza Atlantica – sia geopolitiche – l’inesistenza di confini a delimitazione dei nostri esteri vicini, di fatto formanti un tutt’uno indistinguibile e inscindibile dalla Bosnia alla Libia. L’Italia ha bisogno della Turchia nello stesso modo in cui la Turchia, potenza autocentrata e guardata con diffidenza dalle grandi potenze del sistema europeo, ha la necessità di partner coi quali difendere gli avamposti costruiti in lungo e in largo il grande spazio mediterraneo. E noi possiamo essere quel partner, perché a legarci è la complementarità”.
Dove può prendere piede la complementarietà italo-turca?
“Mi spiego meglio. La Turchia ha dimostrato che può e vuole essere il gendarme della Libia. L’Italia ha gli strumenti per stabilizzarla economicamente e riportarla sul viale della crescita. Idem in Azerbaigian, sorgente di una parte della sicurezza energetica di entrambi, dove Turchia e Italia operano seguendo una divisione delle mansioni molto efficace. In altri teatri si potrebbe fare lo stesso. Il potenziale per un formato di pacificazione italo-turco è evidente e attende soltanto di essere capito, valorizzato e cristallizzato dentro una cornice istituzionale: un patto di Aquisgrana in salsa mediterranea, per il Mediterraneo”.
Ankara è su ogni dossier, dal gas alla Libia. Sta colmando il vuoto di politica estera di Roma?
“Assolutamente sì. La Turchia, spesso descritta come una potenza in declino – o, nel migliore degli scenari, stagnante –, sta in realtà vivendo la propria alba e la sua era non è che cominciata. È un paese ricco di limiti strutturali e contraddizioni, a partire dalle fragilità del modello economico e dalla polarizzazione centro-periferie. Ma questo non deve portare a sottovalutarne le ambizioni e a fare orecchie da mercante ai suoi bisogni e interessi. La caduta dell’ultimo governo Berlusconi ha seguito di poco la famigerata decisione di dare l’assenso ad un violento cambio di regime in Libia. La Turchia ha intravisto nella ritirata italiana dal Mediterraneo allargato l’opportunità irripetibile di dare concretezza alla sua agenda di proiezione egemonica in quello che è stato, per secoli, lo spazio imperiale ottomano”.
Scelte poco lungimiranti, le nostre…
“Storia e geografia vogliono che gli esteri vicini di Italia e Turchia coincidano. Vogliono inoltre che i due paesi diano lo stesso valore a determinate aree – come la Libia-Algeria – o a specifici paesi – come l’Albania. Perciò non devono sorprendere i tentativi della potenza anatolica di scalzarci comunque e dovunque sia possibile. Non esistono confini a delimitare i perimetri dei nostri esteri vicini, che, dai Balcani al Maghreb, non si toccano, ma si mescolano. Un accordo sulle sfere di influenza potrebbe risolvere questo problema. Trasformando la rivalità in competizione controllata o, nel migliore dei casi, in una coesistenza pacifica e reciprocamente vantaggiosa”.
Come mai la Nato tollera le scorribande di Ankara?
“Un’ultima annotazione. Il Mediterraneo è uno di quegli spazi geostrategici, che va assumendo un’importanza crescente. Qui agli Stati Uniti servono faccendieri affidabili, credibili e pronti a sostituire la carota col bastone in caso di necessità. Se la Turchia ha potuto costruire e dare seguito ad una strategia di politica estera in grado di ergerla a potenza mediterranea, è anche perché la sua sfrontatezza è ritenuta un deterrente utile agli Stati Uniti in funzione di contrasto all’espansionismo russo nell’area Medio Oriente e Nord Africa”.
Insomma, serve tornare a pensare una politica estera per l’Italia, non trovi?
“Stiamo entrando nel vivo della competizione tra grandi potenze, questa non è più epoca per gli amanti del solo soft power, ma per chi è/sarà in grado di esercitare smart power, ed è doveroso che l’Italia ne prenda atto e agisca di conseguenza. Fino a quando non avremo il coraggio di difendere i nostri interessi strategici, altre potenze saranno pronte a colmare i vuoti da noi creati. Inoltre, i nostri alleati maggiori preferiranno scommettere su chi offre loro maggiori garanzie di ritorno economico e stabilità”.
In Africa e nel Mediterraneo allargato Italia e Turchia cercano stabilità e commercio. Dove possono convergere e dove confliggere le strategie?
“L’Italia ha una lunga e consolidata tradizione di ricerca della convivenza. Uno dei nostri più grandi talenti è stato ed è quello di trasformare sfide in opportunità e facendo di inimicizia un’amicizia. È chiaro che il fatto di avere degli esteri vicini coincidenti, in assenza di piani di coordinamento, possa dar luogo a rivalità e ad incomprensioni. Italia e Turchia sono paesi energivori; attingono alle stesse fonti per il loro approvvigionamento; serbano la comune ambizione di farsi snodi fondamentali per il trasporto di gas naturale in Europa. L’energia è uno di quegli angoli da smussare se mai si vorrà giungere ad un compromesso in stile francotedesco. Lo abbiamo visto a Cipro nel 2018. Si sente la necessità di trovare dei nuovi baili che siano in grado di costruire e mantenere aperti e attraversabili i ponti tra Roma e Ankara”.
Come mediare in Africa, cuore del Piano Mattei di Giorgia Meloni?
“Per quanto riguarda l’Africa, parliamo di uno spazio immenso, un continente all’interno del quale si stendono una pluralità di microcosmi di civilizzazione e di potenze in ascesa, dalla Nigeria al Sudafrica, e dove vi sono opportunità per tutti. Ciononostante, Italia e Turchia rivaleggiano per la primazia in quello che fu lo spazio coloniale italiano; si trovano agli antipodi nel Sahel, dove noi supportiamo la Francia; hanno una serie di problematiche da risolvere nell’Africa settentrionale. Prima fra tutte la visione dell’Egitto – partner indispensabile per Roma, rivale naturale per Ankara – e proseguendo nella Libia-Algeria – leggasi corsa agli ori energetici.
Penso che, di nuovo, un patto di Aquisgrana in salsa mediterranea, per il Mediterraneo e oltre, potrebbe contribuire al mutuo benessere di entrambi. Potrebbe aiutarci ad appianare e a risolvere intelligentemente le nostre divergenze. Sarebbe benvisto dagli Stati Uniti – presso i quali andrebbe pubblicizzato come un ariete in chiave antirussa e anticinese. Last but not least, potrebbe stimolare crescita e sviluppo dai Balcani alle Afriche”.
Quanto conterà tornare sul terreno nella regione con la proiezione del sistema Paese?
“Un ritorno in grande stile dell’Italia nelle aree che contano sarà essenziale per questioni di immagine e di credibilità. In Libia, nel 2011, vinse la benedizione della presidenza Obama chi fu capace di vendersi meglio – i francesi. In Libia e dintorni, oggi, opera col beneplacito della Casa Bianca chi è in grado di dare garanzie di un ritorno in termini di deterrenza e sicurezza – i turchi, ma non soltanto loro”.
Dove l’Italia gioca il meglio del suo vantaggio competitivo?
Gli investimenti nei settori strategici e nei mercati nascenti – industria 4.0 e 5.0, intelligenza artificiale, transizione verde – rappresentano il nostro jolly, una carta sempreverde. Almeno fino a quando altri non saranno in grado di competere con noi, magari offrendo un miglior rapporto qualità-prezzo. Perciò questo è il momento di premere l’acceleratore sull’esportazione delle nostre eccellenze.
E per quanto riguarda lo strumento militare?
“Per quanto riguarda lo strumento militare, non penso che la nostra opinione pubblica sia pronta a supportare il perseguimento di una politica estera più incisiva e , muscolare. Non abbiamo la forma mentis per una diplomazia delle cannoniere in salsa italica. Ma non è un limite insuperabile: alcune potenze offrono droni, missili e mercenari, cosa inconcepibile per la nostra opinione pubblica, l’Italia può, vuole e deve proporsi come esportatrice di pace. Lo strumento militare adibito al contrasto del crimine transnazionale, della pirateria e del terrorismo. Lo strumento militare adibito alla conduzione di attività umanitarie e alla professionalizzazione degli eserciti altrui in determinati campi. In tutto ciò eccelliamo, i numeri confermano il nostro stato di grande potenza della pace, ed è imperativo che ivi si continui ad investire”.
Nell’ottica delle sfide militari ci sono anche le guerre ibride. Che ruolo può giocare l’Italia?
“Un giorno, qualora riuscissimo a formare una classe di esperti in guerre ibride, si potrebbe ponderare l’avvio di una diplomazia ad hoc. L’Italia come erogatrice di consulenze e servizi in materia di difesa da assalti economici, guerre cibernetiche, operazioni psicologiche et similia. L’inasprimento della competizione tra grandi potenze aprirà innumerevoli opportunità per tutte quelle potenze che saranno in grado di dare protezione ai più vulnerabili. Non può esserci visione per il futuro senza lungimiranza”.
Capitolo Balcani: anche qui, nell’estero più prossimo, siamo minoritari. Quale priorità dare alla regione?
“L’importanza dell’Italia è andata decrescendo progressivamente nei Balcani, ma abbiamo ancora tanto da dire e da dare. Da questa penisola a noi prossima, direbbe Pio VII, “non debemus, non possumus, non volumus” ritirarci. Lo impongono fattori culturali – la storia –, interessi economici – siamo il primo investitore internazionale nei Balcani occidentali e il secondo partner commerciale globale –, ed esigenze di sicurezza nazionale – riverberi delle guerre iugoslave docent. Italia e Turchia hanno interessi potenzialmente convergenti nell’ex Iugoslavia e nell’albanosfera, tra i quali la prevenzione di nuovi conflitti interetnici e interreligiosi, ed è questa comunanza che potrebbe formare la base di un partenariato per la regione”.
Che leve ha l’Italia?
“Se è vero che potenze come Turchia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti possono far leva su instrumenta regni come la religione per aumentare la loro influenza culturale nella penisola balcanica, lo è altrettanto che anche l’Italia ha un ricco passato al quale attingere e che disponiamo di un ventaglio di strumenti, attualmente sottoutilizzato, che potrebbe permetterci di entrare da protagonisti in partite-chiave quali le grandi infrastrutture, i giacimenti energetici e minerari, l’industrializzazione.Ai Balcani andrebbero date priorità e centralità, in maniera permanente, perché l’Italia o è balcanica o non è. La geografia è madre di destini ineluttabili”.
L’Albania è un Paese dove hai fatto più volte notare che Ankara ha soppiantato Roma. Il “Piano Mattei” deve considerarla?
L’Albania è il balcone con vista mare che dà sull’Italia. Mettere piede in Albania equivale ad aprire un varco per l’Italia. Avere una sfera di influenza in Albania significa avere una voce in capitolo nei ventri molli della penisola balcanica: serbosfera e albanosfera. La Turchia, come già accaduto altrove, ha provato a colmare il vuoto da noi lasciato in alcuni spazi, come cultura, diplomazia e sicurezzai. Tra i risultati conseguiti dalla locomotiva turca a Tirana, recenti e meno recenti, ricordiamo: l’egemonizzazione del panorama della cooperazione allo sviluppo e delle attività umanitarie; il ruolo di mediazione nei negoziati elleno-albanesi sulla delimitazione dei confini marittimi; l’accordo di cooperazione militare del 2020; la creazione del partenariato strategico nel 2021.
L’Albania può essere un laboratorio dei futuri rapporti italo-turchi?
La Turchia è in Albania per restare. L’Italia è in Albania per avere una testa di ponte sui Balcani profondi. Si può decidere di competere, siccome le ragioni di divergenza sono diverse e pronunciate, come si può scegliere di cooperare e di fare di Tirana e dintorni – l’albanosfera – uno dei laboratori del patto italo-turco per il Mediterraneo allargato. In entrambi i casi, formato cooperativo o rivalità, l’Albania dovrebbe rientrare nel piano Mattei. Anche perché, sebbene sembri regnare un’amnesia collettiva, siamo davanti ad un piccolo miracolo geologico che da anni attende l’arrivo di investitori e cervelli – i primi giacimenti petroliferi dei Balcani occidentali, tra le più grandi riserve di cromio d’Europa e un quantitativo di metalli rari, come cobalto e platino, ancora vergine.
In prospettiva, quanto può impattare sulla Nato una dialettica forte Italia-Turchia orientata a stabilizzare il Mediterraneo allargato?
“L’impatto sarebbe elevato, tangibile e financo destabilizzante, poiché in grado di riscrivere gli equilibri di potere all’interno dell’Alleanza e di irrobustirne sensibilmente il fianco meridionale. Un asse è quello di cui entrambi i paesi abbisognano per migliorare la loro posizione negoziale dentro e fuori l’Alleanza. Se adeguatamente pubblicizzato, penso che potrebbe ricevere il beneplacito del socio di maggioranza: gli Stati Uniti”.
Come la prenderebbero gli alleati dell’Italia?
Far accettare ad alcuni alleati una realtà di questo tipo, che non è esagerato definire un “game-changer”, non sarebbe semplice. Penso in particolare a Londra, che da sempre ha un terzo occhio puntato su Ankara, e a Parigi, concorrente in egual misura di Roma e Ankara. Ma possiamo vantare la recente apertura di un canale privilegiato con l’Eliseo, cioè il Trattato del Quirinale. Dovremmo sfruttare quest’inusuale triangolazione per mettere sul piatto della bilancia un tentativo di risolvere le tensioni nell’Egeo e di iniettare moderatezza nella politica estera turca. Un asse italo-turco intra-NATO, in estrema sintesi, sarebbe portatore di una destabilizzazione mutualmente benefica. Questo garantirebbe, da un lato, una redistribuzione di potere concreto e contrattuale. Dall’altro, sarebbe foriero di una stabilizzazione collettivamente vantaggiosa. Il risultato? La messa in sicurezza del fianco meridionale e il via libera ai processi di normalizzazione bilaterale.