Perché questo articolo potrebbe interessarti? Quattro anni di carcere per Raffaele Sollecito, che ha scontatoprima di essere assolto dall’accusa di aver ucciso Meredith Kercher, non sarà risarcito per il periodo trascorso dietro le sbarre. La norma applicata dalla Corte d’appello di Genova è nel codice di procedura penale e sta mietendo numerose vittime che, oltre al danno dell’ingiusta detenzione, vivono la beffa di vedersi negato o ridotto il risarcimento di cui avrebbero diritto.
C’è un iceberg, al pari di quello che provocò l’affondamento del Titanic, contro il quale la giustizia italiana a volte impatta con conseguenze disastrose. L’ultimo “naufrago” di un meccanismo perverso è Raffaele Sollecito.
L’ingegnere informatico pugliese, accusato dell’omicidio di Meredith Kercher, avvenuto il 1° novembre a Perugia, ha annunciato che impugnerà in Cassazione il nuovo rifiuto alla sua richiesta di risarcimento per il periodo trascorso in carcere da innocente.
Sollecito passò quattro anni in carcere
Condannato insieme ad Amanda Knox in primo grado, Sollecito passò quasi quattro anni in carcere prima di essere assolto in appello e scarcerato. Il 27 marzo 2015 la Cassazione assolse in via definitva Knox e Sollecito.
A decretare il rifiuto del risarcimento per Sollecito è stata questa volta la Corte d’Appello di Genova, La richiesta era stata avanzata in base alla legge sulla responsabilità civile dei magistrati. In passato gli era stato negato l’indennizzo per ingiusta detenzione, perché secondo i giudici sarebbe stato lui a indurre in errore gli investigatori con i suoi racconti contraddittori. Stavolta la sua richiesta danni, per più di tre milioni di euro, sarebbe stata bocciata non nel merito della vicenda processuale, ma solo per la mancata retroattività della nuova legge.
Carcere, un meccanismo perverso
Un meccanismo abbastanza perverso che ben spiegano Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi di errorigiudiziari.com:
“Secondo la sentenza che ha rigettato l’istanza di riparazione per ingiusta detenzione, le dichiarazioni rilasciate da Sollecito nel corso del procedimento avrebbero indotto “i vari giudici dapprima a emettere e poi a mantenere una misura cautelare detentiva a suo carico, apparendo evidente che una diversa condotta, che avesse evitato dichiarazioni contraddittorie o palesemente false, ovvero che avesse fornito una immediata spiegazione delle loro incongruità rispetto alle diverse emergenze dalle indagini, avrebbe evitato il nascere o il consolidarsi del sospetto della materiale partecipazione del Raffaele Sollecito all’omicidio della giovane Meredith Kercher o quanto meno avrebbe consentito una diversa valutazione della sua pericolosità rispetto a quella che motivò l’emissione e lungo mantenimento della massima misura cautelare”.
Tradotto: le parole di Raffaele Sollecito, nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto nella fase iniziale delle indagini, non sono state di aiuto ai giudici che di volta in volta si è trovato davanti. Non solo: sono state contraddittorie o addirittura chiaramente false. E lui non ha mai fatto nulla per spiegare il perché.
Diciamolo subito: la decisione della Corte d’appello si basa su una precisa norma del codice di procedura penale, l’art.314, lo stesso che disciplina l’istituto della riparazione per ingiusta detenzione”.
Carcere, trentamila persone innocenti poi risarcite
La giustizia italiana è tutto fuorché infallibile se si pensa che negli ultimi trent’anni più di 30mila persone sono finite in carcere innocenti e per questo risarciti. Il ritmo è di una media di mille all’anno, per una spesa in indennizzi e risarcimenti che ha superato i 900 milioni di euro. Ma c’è chi rimane fuori dal risarcimento pur vedendo riconosciuta in tribunale la propria innocenza.
L’articolo 314 del codice di procedura penale sancisce che “chiunque è stato prosciolto con sentenza irrevocabile… ha diritto a un’equa riparazione, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”. I magistrati lo interpretano nel modo più alto. E ha consentito alle Corti d’appello di bocciare le richieste di riparazione a tutti coloro che, magari nel primo interrogatorio, quando erano ancora sconvolti per l’arresto, si erano avvalsi della facoltà di non rispondere alle domande.
Il caso più emblematico di mancato risarcimento è quello di Giulio Petrilli. Che stato anche oggetto di una interrogazione dei senatori Ilaria Cucchi e Giuseppe De Cristofaro (Sinistra italiana) al ministro della Giustizia Carlo Nordio.
Petrilli, aquilano, fu arrestato il 23 dicembre del 1980, a 21 anni, con l’accusa di partecipazione a banda armata per un presunto coinvolgimento nell’organizzazione terroristica Prima Linea. Detenuto per 5 anni e 8 mesi, nel regime speciale riservato ai terroristi, è stato poi assolto dai giudici della Corte d’Appello e tale proscioglimento è divenuto definitivo in Cassazione nel 1989. “Ciononostante”, scrivono i due parlamentari, “la sua richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione è stata sempre negata proprio in base al primo comma dell’articolo 314 del Codice di procedura penale poiché avrebbe avuto frequentazioni “poco raccomandabili” e quindi adottato una condotta in qualche modo definibile “colposa”“.
Gli altri casi limite
L’applicazione della norma ha portato ad altri casi paradossali, raccontati sempre sul sito errorigiudiziari. com. Ne citiamo soltanto alcuni.
L’avvocato Fabio Tringali ha passato 7 giorni in carcere e 106 giorni agli arresti domiciliari con l’accusa di riduzione in schiavitù. Assolto con formula piena, si è comunque visto ridurre del 20% l’indennizzo ottenuto per ingiusta detenzione con la motivazione che aveva tenuto un comportamento amorale: quella stessa condotta che per una corte d’assise non aveva avuto valore di reato, è stata invece ritenuta riprovevole dai giudici d’appello che hanno fissato l’importo dell’indennizzo.
G. M. è stato vittima di uno scambio di persona. Arrestato con l’accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso, era rimasto in carcere per 1196 giorni. La prova regina nei suoi confronti avrebbe dovuto essere un’intercettazione telefonica in cui si parlava di lui come di “U Giusto”, ma quello non era mai stato il suo soprannome. Una volta assolto, si è visto decurtare l’importo dell’indennizzo per ingiusta detenzione del 30%. Il motivo? Aveva avuto tre contatti telefonici con persone effettivamente appartenenti alle cosche. E a nulla era servito spiegare che il paese in cui G. M. vive è ad alta densità mafiosa e che era quasi impossibile non avere contatti con persone poco raccomandabili.
Non risarcito perché sordo
A. C. finisce in carcere con l’accusa di rapina, detenzione e porto abusivo di arma. Durante l’interrogatorio di garanzia che si svolge a distanza di un anno dai fatti contestati, si limita a protestare la propria innocenza. E a spiegare che non può ricordare nei dettagli dove fosse e cosa facesse tanto tempo prima, e a sottolineare il problema di cui soffre. E’ sordo, circostanza che lo porta anche a essere particolarmente stringato nelle sue dichiarazioni. Ma non c’è niente da fare. Resterà in cella 201 giorni più altri 93 giorni agli arresti domiciliari. Una volta riconosciuta la sua estraneità a ogni accusa, si vedrà tagliare l’importo dell’indennizzo per ingiusta detenzione del 58%. Il motivo? “Non ha fornito un alibi, limitandosi a dichiararsi innocente”.
M. C., 702 giorni in carcere da innocente, si è visto tagliare del 25% l’indennizzo per ingiusta detenzione poiché il suo avvocato aveva commesso un errore procedurale. Per ottenere la scarcerazione del suo cliente, aveva fatto ricorso a un rimedio processuale che aveva finito per allungare i tempi della giustizia. Se avesse utilizzato un altro tipo di ricorso, il suo assistito sarebbe uscito prima di prigione. Morale: lo Stato non solo non doveva arrestarti. Eppure ti pagherà un indennizzo inferiore al dovuto perché ti sei fatto difendere da un avvocato poco preparato.