Perché questo articolo potrebbe interessarti? Il centrosinistra ha portato in Italia la modalità di voto delle primarie, ma nelle ultime tornate il numero di elettori è costantemente diminuito. E i motivi sono da rintracciare in molteplici fattori. Non solo storici, ma anche politici.
Le primarie da decenni costituiscono un momento delicato e importante della vita politica statunitense. Quando scatta l’anno delle presidenziali, sia tra i democratici che tra i repubblicani parte una frenetica corsa alla nomination, ottenuta da chi riesce grossomodo ad avere più delegati nelle convention nazionali dei rispettivi partiti.
In Europa una tradizione del genere non si è mai radicata. Almeno fino alle soglie del nuovo secolo. Perché poi, a partire dal 2005, l’area del centrosinistra in Italia ha iniziato a scegliere i propri segretari o i propri candidati tramite le primarie. Tuttavia rispetto a quelle statunitensi, le primarie italiane hanno caratteristiche molto diverse. In primis, non si tratta di un voto “istituzionalizzato” nella tradizione politica. Al contrario, nel corso degli anni hanno attratto sempre meno votanti. In secondo luogo, le primarie nostrane non hanno mai riservato grosse sorprese: a vincere è stato sempre il candidato favorito e “designato” dai vertici del partito.
Dal boom del 2005 al calo di votanti delle ultime tornate elettorali
La prima volta che in Italia si è votato per le primarie è stato il 16 ottobre 2005. In ballo c’era il titolo di candidato della coalizione di centrosinistra chiamata “L’Unione”. Non c’era ancora nemmeno il Pd, il progetto di unire gli ex comunisti dei Democratici di Sinistra (Ds) con gli ex democristiani della Margherita, era in fase embrionale.
Nonostante lo scetticismo anche di molti della coalizione, la macchina organizzativa si è attivata già ad agosto. Sono stati montati seggi e gazebo in tutta Italia. Agli elettori al seggio è stato chiesto un contributo di due Euro, un modo per sostenere tutte le spese di quelle settimane.
Non serviva essere iscritti a uno dei partiti della coalizione, potevano votare tutti. Anche coloro che compivano la maggiore età nella primavera del 2006. Tuttavia, da subito è sembrato palese che l’unico candidato in grado di vincere fosse Romano Prodi. Lo sfidante di Berlusconi nel 1996 era pronto, dopo la fine della sua esperienza come presidente della commissione europea, a tornare in campo per Palazzo Chigi.
E in effetti non c’è stata storia. Prodi ha vinto con il 74% dei voti, Bertinotti, leader di Rifondazione Comunista giunto secondo, si è fermato al 14%. Un esito scontato, ma quelle primarie forse sono state le prime e uniche a fare realmente rumore nel panorama italiano. I vertici de L’Unione avevano infatti previsto un’affluenza intorno ai due milioni di elettori, alla fine invece a recarsi nei gazebo sono stati più di quattro milioni di italiani.
La dimostrazione di forza
Una dimostrazione di forza che ha fatto intuire il cambio di rotta che da lì a breve avrebbe avuto l’Italia. Il Paese era infatti retto da Berlusconi, forte di un’ampia maggioranza parlamentare ottenuta nel voto nel 2001. Dopo quelle primarie, le possibilità che Prodi potesse tornare a Palazzo Chigi sono aumentate notevolmente.
La storia ha dato poi solo parzialmente regione a quell’esito. Prodi ha sì vinto, ma di misura e il suo governo, molto debole, è caduto già nel 2008. Nel frattempo, il quadro politico italiano aveva subito ben altri scossoni. Il progetto di fondazione del Pd era andato avanti spedito in modo quasi inaspettato, arrivando così già nel 2007 a un nuovo turno di primarie. Questa volta non per scegliere un candidato, ma per designare il primo segretario del partito. A Spuntarla è stato Walter Veltroni, candidato poi (senza successo) alle politiche anticipate del 2008.
Le sconfitte elettorali del neonato partito, hanno portato lo stesso ex sindaco di Roma a dimettersi già nel 2009, anno di un’altra elezione primaria. A vincere in quell’occasione è stato Pierluigi Bersani, ma l’elemento emerso da quella tornata ha riguardato la disaffezione degli elettori verso questa modalità di voto. Dopo l’exploit del 2005, nel 2007 gli elettori ai gazebo sono scesi a 3 milioni e mezzo, nel 2009 a tre milioni, stessa cifra confermata nel 2012. Poi da allora, si sono registrati ulteriori balzi all’indietro. Nel 2013 il numero di votanti è sceso di poco sotto i tre milioni, nel 2017 non sono stati raggiunti i due milioni e nel 2019 l’affluenza si è fermata a un milione e mezzo.
Vincitori già noti in partenza
Quella quindi dell’affluenza alle primarie del Pd (o del centrosinistra in generale) è una curva costantemente volta verso il basso. I motivi probabilmente sono due: gli elettori nel corso degli anni sono diminuiti anche nelle tornate elettorali ufficiali, segno di un costante aumento della disaffezione politica. L’altro motivo è dato dal fatto che le primarie sono sempre servite solo per dare rango di ufficialità alle designazioni già attuate dalla segretaria del partito.
È stato così nel 2005, quando nessuno era in grado di scalzare realmente Prodi dal ruolo di candidato. Questo non ha impedito in quel momento di vedere ai seggi più di quattro milioni di elettori, ma perché lo scenario politico di allora era molto diverso: la sfida con il centrodestra aveva polarizzato l’opinione pubblica e gli elettori di centrosinistra erano voluti andare in massa al voto per dare un importante segnale contro Berlusconi. Venuta meno la polarizzazione, sono via via venuti meno anche i partecipanti alle primarie.
Nel 2007 la vittoria di Veltroni è stata di fatto incontrastata, stesso discorso per quella di Bersani nel 2009. Solo nel 2012 c’è stata una parziale vera sfida tra due candidati, con il segretario uscente che se l’è dovuta vedere al ballottaggio con Matteo Renzi per strappare la candidatura a Palazzo Chigi in vista del voto del 2013. Lo stesso Renzi poi ha vinto di fatto senza veri avversari nel 2013 e nel 2017. Nel 2019 il nome di Luca Zingaretti quale nuovo segretario era uscito già molto tempo prima delle primarie che gli hanno ufficialmente consegnato lo scettro di segretario.
La aspettative per le prossime primarie del Pd
La sfida per le primarie di questo febbraio non ha molto di diverso rispetto alle ultime tornate. Ancora una volta non si ricandida il segretario uscente, con Enrico Letta che dunque è destinato a rimanere uno dei pochi segretari Pd a non essere stato designato nei gazebo, e ancora una volta c’è un candidato che supera nettamente tutti gli altri.
Si tratta di Stefano Bonaccini, presidente della regione Emilia Romagna, in testa già nel voto in corso nei circoli del partito. Distante la principale sfidante Elly Schlein e ancor più distanti sono Paola De Micheli e Gianni Cuperlo.
Difficile al momento immaginare quale sarà l’affluenza alle urne. Il timore di un flop è dietro l’angolo. C’è infatti da sottolineare come queste primarie sono state organizzate in una fase molto lontana dalle prossime scadenze elettorali nazionali. Le politiche si dovrebbero tenere nel 2027, le europee saranno invece il prossimo anno. Circostanza che potrebbe scoraggiare molti dal recarsi nei seggi che saranno allestiti.