Quando la notizia è diventata ufficiale, il presidente dei presidenti della Serie C ha preso cappello e ha dettato un comunicato sdegnato: “La decisione non solo viola diritti consolidati, ma è espressione di una concezione elitaria del calcio”. La decisione è quella dei club della Serie A di darci un taglio con la Coppa Italia aperta a tutti e limitarne la partecipazione a 40 squadre: quelle del massimo campionato e le 20 della Serie B. Addio a tutti gli altri che del resto, con l’eccezione dell’Alessandria nel 2016, tradizionalmente provvedevano già per conto loro a uscire di scena nei primi turni estivi e autunnali.
Le novità della Coppa
Il motivo della dieta è presto detto: quelle partite non interessavano a nessuno, nemmeno a mamma Rai che quasi non le trasmetteva, mentre ora si punta a un format più snello e in cui le big di Serie A scendano in campo più rapidamente così da moltiplicare il valore dei diritti tv e il montepremi. Insomma, una cosa fatta con logica e seguendo i ragionamenti posti alla base anche del progetto della Super Lega e della stessa Super Champions varata dalla Uefa nel pieno della guerra con i ribelli (non ancora finita).
Lo spettro della Superlega
Il cortocircuito nasce proprio qui. Se da una parte molte società di Serie A ancora aspettano – e sperano – di veder punite Juventus, Milan e Inter per le loro voglie secessioniste, dall’altra non si sono fatte scrupoli di buttare fuori il romantico calcio di provincia così da liberare spazio e risorse nel calendario. Alla faccia del modello della FA Cup inglese, di tutti i discorsi sul calcio del popolo e di tante altre castronerie raccontate che nel football moderno “uno vale uno”. Non è dato sapere se, al momento del voto sul nuovo format di Coppa Italia, abbiano provato un minimo di imbarazzo o, semplicemente, siano andate dritte al sodo facendo due conti. È possibile che sia accaduta la prima delle due cose, ma l’esito è stato identico.