Perché l’articolo potrebbe interessarti? Il recente caso tunisino solleva dubbi sul peso dell’Italia all’interno della Banca Mondiale, ente a cui Roma gira non poche somme ogni anno. Lo spettro è quello di investimenti con pochi ritorni per il nostro interesse nazionale.
La questione tunisina negli ultimi giorni ha infiammato e non poco il dibattito. Tanto in Italia, quanto all’estero. L’arrivo di migranti dalle coste del Paese nordafricano, la crisi economica a Tunisi e il mancato avvio del piano del Fondo Monetario Internazionale, hanno generato non poche preoccupazioni a Roma.
L’Fmi, com’è noto, ha posto delle condizioni per un prestito da due miliardi di Dollari essenziali per le disastrate casse tunisine. La prima riguarda le riforme, le stesse che il presidente Kais Saied non vuole fare. Ma se il Fondo al momento si è limitato a temporeggiare, c’è un’altra istituzione con sede a Washington che invece ha già esplicitamente dichiarato la volontà di sospendere i piani con la Tunisia. Si tratta della Banca Mondiale. Una scelta quest’ultima capace di creare ulteriori grattacapi all’Italia, con il governo del Bel Paese in prima linea nel chiedere invece maggiori sforzi per evitare il fallimento di Tunisi. Sorge quindi spontaneo chiedersi qual è il peso politico di Roma all’interno della Banca. E, soprattutto, se a fronte di molti investimenti a cui l’Italia partecipa da anni sono seguiti risultati importanti a tutela anche dei nostri interessi.
Il peso dell’Italia all’interno della Banca Mondiale
Ciò che si intende per Banca Mondiale, è in realtà un gruppo formato da cinque differenti istituzioni. La più importante è la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (IBRD), c’è poi l’Agenzia Internazionale per lo Sviluppo (IDA), l’ente cioè preposto ad erogare prestiti ai Paesi in difficoltà, mentre per i fondi a favore delle imprese nei Paesi a rischio c’è la Società Finanziaria Internazionale (IFC). A chiudere il cerchio infine, ci sono il Centro internazionale per il regolamento delle controversie relative ad investimenti (ICSID) e l’Agenzia multilaterale di garanzia degli investimenti (MIGA).
Così come si legge sul sito del Gruppo della Banca Mondiale, per ciascuno dei cinque enti considerati è stato stabilito dallo statuto un sistema di voto ponderato. Vale a dire che ogni Paese ha un potere di voto corrispondente al valore del proprio share. In poche parole, gli Stati membri si vedono assegnati un voto per ogni azione del capitale azionario della Banca detenuto.
L’Italia detiene infatti il 2.63% degli share nell’IBRD, con un potere di voto del 2.52%. Percentuale che sale al 3.23% nell’IFC, mentre per il MIGA e l’IDA la cifra riguarda rispettivamente il 2.3% e il 2.1%. Roma in tutte le agenzie del Gruppo della Banca Mondiale è tra i primi 15 sottoscrittori di capitale. Non solo, ma così come risulta dai dati del ministero degli Esteri, il nostro Paese è tra i principali finanziatori delle attività della Banca Mondiale. Tra il 2015 e il 2020, Roma ha contribuito alle varie attività degli enti con complessivamente 2.18 miliardi di Euro.
Le aree di interesse italiano in cui è presente la Banca Mondiale
Investimenti importanti quindi e cifre non di secondo piano. Ma è qui che sorgono dubbi sulla bontà di tali spese. Occorre verificare infatti in primo luogo se i progetti a cui l’Italia contribuisce abbiano effettivamente un tornaconto in termini di interesse nazionale. In questo caso emergono luci e ombre. Da un lato è vero che la Banca Mondiale è presente in nord Africa. Negli ultimi mesi sono emersi ad esempio progetti riguardanti l’Egitto, Paese che ha un importante bisogno di investimenti per via di una grave crisi economica appesantita dal Covid prima e dalla guerra in Ucraina poi.
L’asse tra la Banca Mondiale e il governo de Il Cairo è per l’Italia un buon affare: dall’Egitto partono sempre più migranti, la stabilizzazione del quadro economico e sociale del Paese è quindi un obiettivo nell’interesse di Roma. Ma ovviamente i programmi dell’istituto con sede a Washington abbracciano tutte le aree del pianeta ritenute più disagiate. La missione della Banca Mondiale del resto è quella di intervenire nelle zone più povere. E i soldi messi a disposizione da donatori e Stati membri, compresi quindi quelli italiani, coprono tutte le attività dei cinque enti del gruppo. Senza quindi particolari vincoli di destinazione.
Il caso tunisino
Il timore è quello di non poter avere un preciso controllo dei fondi stanziati dai vari governi, incluso quello di Roma. L’Italia mette nel portafoglio i miliardi, senza poi poter verificare l’ottenimento di precisi risultati e senza valutare le finalità degli investimenti. Un po’ come accadeva, con le dovute proporzioni, a livello interno quando lo Stato rimpinguava di Lire la Cassa per il Mezzogiorno. Con la beffa ulteriore poi, in questo caso, di avere scarso peso politico quando una particolare situazione interessa da vicino il nostro Paese.
La Tunisia ne è un esempio lampante. L’Italia da alcune settimane si è fatta portavoce degli interessi di Tunisi. Il perché è presto detto: se il Paese arabo dovesse fallire, le conseguenze sarebbero ben visibili lungo la penisola. A partire dalla questione relativa all’immigrazione. Eppure la Banca Mondiale, subito dopo le dichiarazioni di Saied contro la presenza di migranti subsahariani in Tunisia, non ha perso tempo nell’interrompere parte dei progetti finanziati proprio a favore del governo di Tunisi. Mettendo in non poco imbarazzo l’Italia. Oltre che in una posizione piuttosto scomoda a livello politico.