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Game over Ferragnez, è iniziata l’era dei microinfluencer

Game over Ferragnez, è iniziata l’era dei microinfluencer

Perché leggere questo articolo? I macroinfluencer non influenzano più, il caso Ferragni-Balocco è stato il colpo fatale. Ma mentre un’era è finita, ne è già iniziata un’altra: quella dei microinfluencer. Con competenze specifiche e seguito reale e fidelizzato. Per l’esperto di comunicazione e scrittore pubblicitario Paolo Iabichino, “il pubblico è più attento nel cogliere la mancanza di autenticità degli influencer. E predilige la qualità dei contenuti piuttosto che la quantità di follower dalla dubbia provenienza. I brand seguono a ruota”, puntando su strategie che coltivano rapporti con i content creator più piccoli che presidiano le proprie nicchie. L’intervista.

Game over per i Ferragnez. I superinfluencer non influenzano più, la loro era è finita. Con engagement ai minimi storici, like invisibili e grandi brand in ritirata, l’inesorabile caduta delle grandi stelle dei social è ormai realtà. Lo conferma anche un’inchiesta di Mobile Marketer che, analizzando i dati di Influencer DB, ha rivelato un settore bulimico, poco trasparente e sempre più in affanno. Gli utenti, infatti, sembrerebbero non fidarsi più dei consigli delle strapagate star dei social: di fronte alla loro ennesima sponsorizzazione lo scroll arriva immediato. A pesare sul settore è stato soprattutto il pandoro-gate, che ha finalmente rotto la campana di vetro sotto cui si nascondeva il mitico Eldorado dei big dell’influencer marketing. Ma secondo lo scrittore pubblicitario Paolo Iabichino, esperto di comunicazione relazionale e pubblicità etica, “questa crisi era già nell’aria da tempo. E non riguarda solo l’Italia”. L’autore noto anche col nome di Iabicus afferma: “Ora la nuova e più attenta generazione di spettatori e – di conseguenza – anche i brand vogliono autenticità, verità, specializzazione. Preferiscono puntare sulla qualità piuttosto che sulla quantità, andando così a premiare le nicchie dei nano e microinfluencer”.

Secondo lei l’era dei macroinfluencer è finita oppure no?

Sì, è decisamente finita un’era. Già nel 2010 in tempi non sospetti, scrivendo della pericolosità del meccanismo mediatico pubblicitario di queste figure, ne avevo intravisto il “canto del cigno”. E purtroppo fui profetico. Per i Ferragnez è game over. Il giocattolo, ormai, si è rotto inesorabilmente.

Quindi il caso Ferrragni-Balocco è stato solo il colpo di grazia di una crisi che era già nell’aria da anni?

Esatto. Il meccanismo degli influencer si era già incrinato da tempo. E gran parte della responsabilità non è solamente dei brand manager, quanto piuttosto dei centri media che trattano come carne da macello sia gli infuencer sia i consumatori, esponendoli a personaggi che in realtà non interiorizzano davvero le narrazioni di marca. Vi aderiscono soltanto per fini commerciali e pubblicitari.

Ma quali sono le conseguenze sistemiche del pandoro gate sul settore?

Ultimamente il caso Balocco ha incrinato in maniera irrimediabile il meccanismo fiduciario della beneficenza Facendo emergere tutti quei sistemi non proprio solidali che spesso si nascondono dietro ad accordi prettamente commerciali. Le organizzazioni del Terzo settore ne stanno pagando il prezzo più alto. Non avendo la forza per reggere le pressioni pubblicitarie che il meccanismo di raccolta fondi impone, hanno usato testimonial come scorciatoie. Assoldando l’influencer di turno, però, l’operazione benefica assume mediaticamente una cornice molto forte, ma viene al contempo impoverita del legame con il progetto e l’organizzazione. Il meccanismo di adesione è solamente di tipo commerciale e pubblicitario. I consumatori se ne sono resi conto e ora tendono a generalizzare, non a torto. Purtroppo, infatti, il caso Ferragni non è l’unico. Si fa sempre più fatica a individuare un meccanismo sincero e trasparente di beneficenza. E questo è uno sforzo che i consumatori non sono disposti a fare.

E sul fronte del profit invece?

È inevitabilmente emersa l’inadeguatezza di certi sistemi di influencer marketing, tra profili dopati di follower e l’incapacità di gestire un piano di crisi. Tutte evidenze che il caso Ferragnez ha rivelato in tutta la sua povertà. E secondo me è un bene, perché così i brand potranno finalmente rendersi conto che delegare i propri valori a terzi, senza che questi siano davvero ingaggiati nella narrazione del prodotto, non è la strategia vincente.

Quindi qual è la vera strategia vincente?

In questo momento vincono le strategie di nano e micro influencer. Chi lavora nel digitale con serietà li adotta già da anni. Questi personaggi vengono addirittura ingaggiati all’interno delle aziende, assunti sia per le loro capacità editoriali e comunicative, sia per le loro reali competenze in settori specifici. Inoltre, è molto più rilevante un credito di poche migliaia di persone, piuttosto che un seguito mistificato da milioni di follower. Molti dei quali di provenienza incerta.

Il mondo dei social sta dunque virando verso i microinfluencer. Per quale motivo il pubblico li sta preferendo?

I microinfluencer vengono apprezzati per la loro autorevolezza e autenticità. Ma credo che il loro successo sia anche dettato dall’avvento di una nuova generazione di pubblico su questi canali. Un’audience più attenta e con sensibilità profondamente diverse rispetto al passato, che si accorge immediatamente se una narrazione viene strumentalizzata e manipolata. I nuovi utenti colgono e stigmatizzano ogni difetto narrativo, smettendo di credere all’autenticità degli influencer. Il loro seguito continua, ma diventa più voyeuristico. Queste figure infatti non influenzano più. Sono diventate come spot di 30 secondi in televisione. E la colpa è di chi le ha vendute con la stessa logica dei grp televisivi.

Anche i brand, di conseguenza, stanno abbandonando i big per puntare sulle nicchie dei microinfluencer…

Certo. Da un lato ci sono i brand offesi dalla vicenda che, come minimo, rompono i contratti. Anche se sono gli stessi marchi che hanno precedentemente aderito alla logica tossica della crescita a tutti i costi. Facendosi ammaliare dal numero dei follower e non dalla qualità del contenuto. Dall’altro, invece, ci sono i brand più attenti e lungimiranti che da tempo hanno preferito puntare su una precisa strategia di comunicazione digitale basata sulla qualità dei propri contenuti. Affidati a figure competenti e specializzate come i microinfluencer.

È una situazione solo italiana?

No, anzi. Come molte delle novità che riguardano il marketing e la comunicazione, questo cambiamento è prima avvenuto oltreoceano, poi l’abbiamo fatto nostro. Si tratta di una tendenza che negli Stati Uniti hanno adottato in tempi assolutamente non sospetti. Soprattutto tra i brand più sensibili che non hanno creduto alla favoletta dei macroinfluencer. In Francia, invece, sono state adottate vere e proprie partite legislative normative nei confronti degli influencer. Con disclaimer sui retouch fotografici sia nella pubblicità tradizionale che in quella digitale.

Quale sarà il futuro dell’influencer marketing?

Non so rispondere con certezza assoluta. Ma personalmente credo che si darà sempre più spazio ai nano e microinfluencer. Anche perché gli utenti, sempre più capaci di discernere tra contenuti autentici e manipolati, svilupperanno una maggiore consapevolezza dei loro consumi. Le crisi del mondo del fast fashion e del cibo a domicilio dimostrano che questi modelli di business, per fortuna, non stanno più funzionando. L’illusoria favola della crescita a tutti i costi non attrae più. E di conseguenza la comunicazione dovrà adeguarsi.