Perché potrebbe interessarti questo articolo? Prima delle elezioni del 25 settembre l’influencer Chiara Ferragni, ma anche altri personaggi si sono schierati contro il centrodestra e Giorgia Meloni. Con i milioni di follower che hanno, qualcuno pensava che avrebbero influito sul voto. Così non è stato, perché un conto è proporre in una storia su Instagram una crema di bellezza, un altro propagandare un’idea politica.
Ad agosto su Instagram Chiara Ferragni, la più seguita influencer italiana, aveva 27,6 milioni di follower su Instagram. Una vecchia regola del marketing diretto sosteneva che, in una campagna, la risposta del 3% del pubblico destinatario (la redemption, in gergo tecnico) era da considerarsi un successo. I tempi si sono evoluti e adesso, per i social, si parla di “engagement”, un dato che calcola il coinvolgimento dei follower.
I follower non si trasformano automaticamente in elettori
Ma teniamo per buona la vecchia regola del marketing diretto. Fatti due conti, molto alla buona, con un suo post, l’imprenditrice cremonese potrebbe indurre all’azione circa 300mila dei suoi follower. Azione che potrebbe concretizzarsi nell’acquisto di un prodotto pubblicizzato, o nell’adesione e condivisione di un’idea espressa su un tema sociale o un argomento di stringente attualità.
Se per le creme di bellezza sponsorizzate è facile che accada, le recenti elezioni politiche hanno dimostrato che la Ferragni non sposta voti.
Quando ha preso posizione sull’aborto criticando la regione Marche guidata da Fratelli d’Italia e dopo altri post di critica a Giorgia Meloni, nei quartieri generali delle formazioni di centrosinistra, probabilmente qualcuno si sarà sfregato le mani.
L’endorsment della Ferragni sarà sembrato al Pd e agli altri alleati una manna dal cielo: una pubblicità che avrebbe parlato a milioni di persone e, per giunta, gratis (per sponsorizzare un proprio prodotto sul profilo social di Chiara Ferragni servono all’incirca 51.000 euro).
Qualcuno, invece, avrebbe dovuto spiegare a Letta e company la vecchia regola del marketing diretto, ma anche fargli un riepilogo storico per dimostrargli che avere l’appoggio pubblico di personaggi celebri del mondo dello spettacolo non porta voti.
L’inutile canto di dolore delle pasionarie della canzone italiana
Restiamo per un momento all’oggi. Contro la Meloni, contro le politiche di destra, contro il pericolo di un ritorno del fascismo in Italia, prima delle elezioni si sono schierate numerose artiste, soprattutto cantanti: da Elodie a Giorgia, da Loredana Bertè a Levante. Ovviamente tutte attraverso i propri profili social, alcune in interviste che hanno rilasciato.
La sola Elodie ha quasi tre milioni di follower su Instagram, le altre sue colleghe hanno centinaia di migliaia di seguaci. Sommando chi segue la Ferragni ai follower di queste ultime, avremmo una cifra monstre se la leggessimo in chiave elettorale-politica.
Ma chi segue la Ferragni lo fa anche solo perché affascinato dalla sua vita in famiglia con Fedez e i loro due bambini, chi segue Elodie lo fa per la sua voce e le sue canzoni (magari qualche uomo anche per altro, ma cerchiamo di rimanere nel politicamente corretto). E probabilmente questi fan non hanno interesse a conoscere le opinioni politiche delle proprie beniamine e non si fanno influenzare rispetto al voto.
La gente non mette il cervello in mano a Chiara Ferragni
“Non credo che Chiara Ferragni e le altre possano spostare masse di voti. Possono però sensibilizzare fasce di popolazione che altrimenti rimarrebbero ai margini del dibattito”, aveva detto il politologo Giovanni Diamanti intervistato da Flavia Amabile per La Stampa. E il politologo Giovanni Orsina: “La gente si fa consigliare le creme di bellezza ma non mette il cervello in mano a Chiara Ferragni”.
Per Antonio Noto, sondaggista interpellato da Repubblica, in termini statistici l’influencer non ha nessun effetto perché “nel campo dell’indifferenza. Anche perché per natura non influiscono a 360 gradi, ma anche loro sono targettizzati. Il target degli influencer è molto giovane e i più giovani spesso non vanno a votare”.
Proprio la riflessione di Noto ci aiuta a dare uno sguardo al passato. Anni in cui gli artisti erano “impegnati”, moltissimi schierati a sinistra, ma al governo in Italia c’era sempre la Democrazia cristiana, seppure in varie declinazioni (monocolore, pentapartito…).
C’era una volta Fabrizio De Andrè
Il primo artista a dichiarare pubblicamente la propria appartenenza politica fu Fabrizio De Andrè. Dopo il suo debutto alla Bussola di Focette, il proprietario e impresario Sergio Bernardini propose un contratto al cantautore genovese per un tour teatrale. Nel libro Non ho mai perso la Bussola, scritto dallo stesso Bernardini, pubblicato nel 1987, si legge che Faber propose una clausola molto particolare: una percentuale degli incassi doveva essere devoluta a “Potere Operaio” e la cosa doveva essere pubblicizzata. Bernardini rifiutò e l’accordo saltò.
De Andrè era fondamentalmente un anarchico e quindi non poteva essere nel suo stile dare indicazioni di voto, però fu uno dei primi artisti a parlare apertamente della sua visione “politica”. Tanti altri erano invitati a tenere concerti alle Feste dell’Unità, allora organo del partito comunista, ma avevano l’abilità di tenersi distanti dal prendere pubblicamente posizione. E non a caso sono ancora oggi, alcune quasi ottuagenarie – vedi Orietta Berti – ancora sulla cresta dell’onda.
La luna di miele di artisti e Cinque Stelle
C’è poi stato poi la luna di miele degli artisti italiani con il grillismo, soprattutto alle elezioni del 2013 e poi in quelle del 2018. Ma non si può certo dire che siano state le “dichiarazioni” di voto di Fiorella Mannoia, Jovanotti, Claudio Santamaria o Michele Riondino, allora, a far confluire la gran massa di voti sul simbolo dei Cinque Stelle. Piuttosto, erano loro che si ritrovavano tra i tanti italiani convinti di provare a dare fiducia a una forza politica che rappresentava una novità. Ma è risaputo: le lune di miele durano poco.