Tecnicamente si definisce slacktivism ma, se vogliamo ricorrere a una definizione più nostrana, lo potremmo chiamare l’attivismo dei fannulloni o degli sciacalli. Ovvero tutti coloro che si attivano in prima linea, sui social, in favore di un problema comune o di una causa sociale. Sono sì mossi da buoni sentimenti ma il loro impatto è molto tenue o nullo sulla realtà.
Tutti vogliono partecipare e dire la propria
Per Francesco Oggiano, giornalista esperto di social e autore del libro Sociability. Come i social stanno cambiando il nostro modo di informarci e fare attivismo (Piemme, 2022), “sin da quando eravamo nelle caverne, volevamo partecipare a qualcosa. In questi giorni il feed è monopolizzato dalla guerra in Ucraina, viene naturale da parte di tutti di dire la propria, di cercare di partecipare all’azione collettiva per non rischiare di essere tagliati fuori. Fino a pochi anni fa, la credibilità dell’attivista dipendeva da quanto fosse disposto a rischiare fisicamente: si faceva legare all’albero o si faceva picchiare alla polizia. Con Internet, è cambiata la scala di partecipazione: l’attivista può esserlo a distanza. E lo fanno tantissimi grazie all’ubiquità dei social”.
I risultati di questo impegno a distanza, però, sfiorano l’imbarazzo.
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Si resta senza parole di fronte al tutorial postato il 28 settembre da L’influencer Selvaggia, una che macina circa 47mila follower. E che presenta – così ne parla nella didascalia del video – “l’’outfit solidale per una bella gita a Kyiv”. Accompagnata da una musichetta soft, mentre nella capitale i suoni predominanti sono quelli delle bombe, l’influencer fa il paio alla protagonista della serie Netflix Emily in Paris e sfoggia un blazer blu con in capo un basco parigino giallo. I colori della bandiera dell’Ucraina. Ma di solidale non si capisce cosa possa avere questo video. Tra i commenti, l’indignazione si fa sentire: “Qui non riesco nemmeno a ridere. Ho solo tanto disgusto“, scrive un utente. “E’ più stupida questa gente o chi li segue”, è una delle altre riflessioni, forse la più lucida, che giunge dal flusso dei commenti.
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Quantomeno Valeria Marini, postando il 28 febbraio, una foto nella sua classica posa e coprendo il seno con il logo “Stop The War”, ha avuto la cortezza di inserire un numero per le donazioni. Ma naturalmente il post ha più le sembianze di un’auto promozione che di un reale interessamento alla causa ucraina. E, infatti, dai commenti arriva questa considerazione: “Proprio la spontaneità e la sensibilità riguardo il tema.. Sembra che sta sponsorizzando se stessa più che “stop the war”.
I brand e la guerra
Oppure parliamo di aziende e brand che stanno sfruttando il conflitto tra Russia e Ucraina per vendere prodotti. La bandiera ucraina diventa un prodotto per fare soldi. Su Amazon, l’azienda Tazze Premium ne vende una con lo slogan “L‘Ucraina sta chiamando e io devo andare”, che affianca la geografia del paese e i simboli della telefonata di uno smartphone. La chiamata non è al sostegno ma all’acquisto.
Il brand RReiman propone un orologio “dal design minimalista” con i colori della bandiera ucraina. Il giallo e il blu colorano i più disparati oggetti: una borsa a tracolla della All3dPrint, un portafogli della Lianchenyl e così via.
Dalle nostre parti, la pizzeria Gino Sorbillo il 26 febbraio, due giorni dopo l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin, pubblica la foto di una gustosa pizza margherita. La mozzarella forma la scritta: No War. Ottima idea di marketing e i numeri lo confermano: più di 7k like. Ma come contribuisce il brand culinario alla pace? O come va in supporto dei profughi ucraini a cui una buona pizza forse non farebbe male?
Per Oggiano, è una dinamica normale, al passo con i tempi: “I brand si stanno muovendo sull’Ucraina perchè sanno che glielo chiede il proprio target. Specialmente i più giovani chiedono loro di occuparsi della cosa politica. Gli amministratori delle aziende sono visti come attori politici che devono intervenire anche per risolvere i problemi del mondo, prima affidati solo alla politica o alle ONG. E lo stanno facendo a loro modo o con boicottaggi o con vendite di oggetti”.
Michelle Hunziker e Valentina Vignali
Ognuno, tra vip e influencer, sembra che abbia un sentimento di tristezza da dimostrare. Sempre abbastanza forzato. Michelle Hunziker, dalle spiagge delle Maldive, dichiarava qualche giorno fa su Instagram: “Mi sono svegliata con degli incubi. Sentivo piangere bambini, donne e uomini nel sonno. Provo disagio ad essere in vacanza, so che non posso cambiare le cose ma sento un senso d’impotenza”, aggiungendo anche: “Penso a tutte le persone che in questo momento stanno fuggendo nelle infinite code per uscire dal Paese“.
“I social – aggiunge Oggiano – vanno a ondate che durano pochi giorni. E tutti ci sentiamo a parlare di un argomento anche se siamo in vacanza. Per la dura legge dei social, parlare dell’Ucraina, non significa, allo stesso modo, che tu sia interessato all’Ucraina. L’effetto può essere stonante, forse per effetto della Fomo (Fear Of Missing Out, la paura di essere tagliati fuori dalle discussioni social, ndr): tu che sei in vacanza e posti sulla guerra. La strada da cercare è quella della genuinità, di dire solo quello che pensi. E se non ti viene qualcosa di particolare, meglio mettere le foto delle tue vacanze”
Un ragionamento che si può applicare anche all’uscita di Valentina Vignali, ex concorrente del Grande Fratello e influencer. Nei primi momenti dello scoppio del conflitto, si trovava alla Settimana della Moda di Milano. Da lì postava: “Mentre stavo alle sfilate pensavo alle bombe, mentre vedevo le modelle che camminavano il mio pensiero andava comunque là”. Pareri di cui possiamo benissimo fare a meno. E che contribuiscono solo ad alimentare l’ego e i like di chi posta.