Probabilmente al momento dello scoppio del conflitto, Mircea Lucescu non si aspettava una escalation di tale portata: “Non sono un codardo, non andrò via da Kiev.” D’altronde questo era anche il pensiero del suo collega Roberto De Zerbi, allenatore dello Shaktar, nascosto nella capitale ucraina per qualche giorno, prima di riuscire a trovare una via di fuga per poter tornare in Italia. Tante cose uniscono e dividono i due allenatori delle due principali squadre ucraine, come spesso accaduto negli ultimi anni, in lotta per la vittoria del campionato, prima che la storia facesse il suo corso e quell’alba del 24 febbraio cambiasse radicalmente tutto.
Non è un derby quello tra Shaktar Donetsk e Dinamo Kiev, ma è come se lo fosse diventato dal 2020, quando la squadra del Donbass, errante dal 2014, dopo un soggiorno a Leopoli e Charkiv ha preso la residenza nella capitale ucraina. De Zerbi è un giovane rampante, cresciuto con il mito di Guardiola e architetto del magico Sassuolo degli ultimi tre anni, capace di sfornare e/o migliorare giocatori utilissimi anche alla causa del CT Mancini (Locatelli, Berardi, Raspadori e Scamacca). Lucescu invece è l’ultimo vecchio santone del calcio europeo, diventato recentemente l’allenatore più anziano della storia della Champions League. Ciò che accomuna le due figure sono i rispettivi trascorsi bresciani, uno degli epicentri della straordinaria stagione sportiva italiana (Marcel Jacobs e Sonny Colbrelli su tutti). A Brescia De Zerbi ci è nato e vissuto e bastano cinque secondi di conferenza stampa per accorgersi che l’accento non lo perderà mai, nonostante il suo lungo girovagare per la penisola sia da calciatore che da allenatore.
L’avventura italiana
È passato tanto tempo, invece, dai trascorsi italiani di Mircea Lucescu. Sul suo decennio si è scritto tanto e gli aneddoti si sprecano. Il drammatico esordio al Pisa del presidente Anconetani (“superstizioso e tirchio”); il frullatore mediatico dell’Inter di quegli anni (celebri le sue liti con Taribo West); e, soprattutto, le montagne russe sulle rive del Garda, quando il suo “Brescia dei rumeni” diventa un pirotecnico ascensore che sale e scende in continuazione dalla A alla B. Fa esordire all’ombra della torre pendente un ventenne Cholo Simeone e un decennio prima di Roberto Baggio regala al Presidente Gino Corioni un numero 10 della vecchia scuola, quel Gheorge Hagi che ha incantato, a tratti, l’Europa intera. E, dulcis in fundo, passa alla storia per aver fatto esordire in serie A un sedicenne bresciano dai capelli lunghi, quell’Andrea Pirlo che dopo una carriera inimitabile da calciatore è passato, con qualche difficoltà d’apprendistato, dall’altro lato della barricata.
Un uomo del Novecento
Il più anziano allenatore della storia della Champions League viene al mondo il 29 luglio del 1945 a Bucarest, in un’epoca storica non particolarmente tranquilla. Il giovane Mircea cresce in un paese comunista e riguardo alla sua infanzia, effettivamente, non si hanno grandi notizie. Ma in quanto uomo del ‘900, a posteriori, riusciamo a rileggere la storia di Lucescu attraverso alcuni fatti salienti. A metà degli anni ’60 questo giovane attaccante fa il suo esordio nel calcio rumeno con la maglia della Dinamo Bucarest, che diventerà per oltre un decennio la sua seconda pelle. Ed è proprio nel ’65 che in Romania esordisce un altro personaggio destinato a segnare un’epoca, ma non in senso calcistico (anche se, come tutti i grandi leader novecenteschi, seppe riconoscere nel calcio un’importanza straordinaria in termini propagandistici). A seguito della morte di Gheorgiu-Dej, Nicolae Ceausescu diventa inizialmente il segretario del Partito Rumeno dei lavoratori; ma il destino e la Storia hanno in serbo qualcosa di più grande per uno dei personaggi più controversi del ‘900.
Sembra che Mircea Lucescu trovi piacere a trovarsi in situazione ambientali complicate. Il passaggio dallo Shaktar alla Dinamo Kiev non venne accolto favorevolmente dagli ultras della capitale e lo stesso Lucescu, vista l’accoglienza, decise di rassegnare le dimissioni, le quali vennero prontamente respinte. Non è la prima volta che decide di completare il passaggio fra due squadre rivali. Agli inizi del XX secolo Mircea si toglie la soddisfazione di vincere un campionato al Galatasaray e un altro a Besiktas (dopo otto anni di astinenza): impresa assolutamente non banale alle latitudini di Istanbul.
Salutata la Turchia di Erdogan, a Mircea sembra figurarsi davanti la possibilità di un pensionamento dorato in una ricca (per pochi eletti) regione ucraina. Macché. Nella sua decade nel Donbass Mircea Lucescu vince tutto quello che si può vincere, tra cui una straordinaria Coppa Uefa nel 2009, la prima coppa europea vinta da un paese ex sovietico. Allena, in ordine sparso, Matuzalem, Fernandinho, Elano, Fred, Willan, Douglas Costa, Ilsinho. È la sua migliore creazione, è lo Shaktar verdeoro. Ci vogliono grandi doti di persuasione per convincere dei giovani brasiliani a trasferirsi in una gelida regione mineraria nella profonda Ucraina. Doti che a Mircea, chiaramente, non sono mai mancate.
D’altronde, lui che è nato una settimana prima dello sgancio dell’atomica su Hiroshima, ha sempre avuto dalla sua l’arte della diplomazia, oltre a delle naturali capacità conciliatrici.