Il recente caso di una professoressa di Chioggia che ha collezionato 20 anni di assenza è salito alla ribalta della cronaca. Una vicenda talmente surreale da non sembrare vera. Ma che può aprire un squarcio sulla realtà del mondo del lavoro in Italia. True-news.it ha intervistato Francesco Rotondi, Professore, Giuslavorista e Membro esperto del CNEL. Il fondatore dello Studio Legale Lablaw ha fatto una una panoramica sugli strumenti di contrasto all’assenteismo; sulle garanzie contrattuali del mercato del lavoro; e sulla cultura della produttività e del merito nel nostro Paese.
Avvocato, senza entrare nel merito della surreale vicenda di cronaca di una docente che si assenta per vent’anni dal suo posto di lavoro, si solleva un altro tema. Ma davvero non esistono strumenti da parte dello Stato per contrastare le inadempienze di un dipendente?
No, gli strumenti esistono e sono specifici tanto quanto quelli previsti per un rapporto di lavoro privato, evidentemente con delle peculiarità proprie del pubblico impiego. Il tema non è, quasi mai, la regola o la sanzione ma l’applicazione che di essa si fa e la capacità di rendere quella regola effettiva e percepita come cogente dai destinatari della stessa. Da ultimo, non certo per importanza, la parola definitiva spetta alla magistratura.
Cosa dice la normativa circa la destituzione di un dipendente “incapace o assente”?
In realtà la norma è molto scarna nel senso che si limita a prevedere la destituzione o per meglio dire l’essere “dispensato dal servizio” nelle ipotesi di “inidoneità fisica o incapacità o persistente insufficiente rendimento”. La vera questione è perché questa norma sia così scarsamente utilizzata, come risulta dal limitato numero di pronunce della giurisprudenza sul punto.
Il limite della norma, a mio avviso, deriva dalla circostanza per cui nell’attuale formulazione, al di là dei casi limite come quello deciso dalla recente pronuncia della Suprema Corte, è relativamente “semplice” argomentare circa l’indeterminatezza del parametro dell’inadempimento che evidentemente offre margini importanti alla discrezionalità sulle conseguenze delle condotte prese in considerazione.
Il concetto di “persistente ed insufficiente rendimento” lascia un margine di discrezionalità fin troppo ampio. Questo fa si che i margini di operatività della disposizione risultino quasi completamente rimessi ai funzionari dell’amministrazione chiamati a farne applicazione e poi, come detto sopra, all’ultimo giudizio della magistratura.
La vicenda può essere rivelativa di un sottotraccia del mondo del lavoro: quello dello squilibrio tra privilegio e assenza di tutele. Esistono lavoratori e forme di contratto di serie A e di serie B?
Mi ricollego alla risposta iniziale per precisare che non si tratta di una questione di privilegi da un lato ed assenze di tutele dall’altro ma di un diverso modo di guardare alla performance.
Questo diverso approccio fra pubblico e privato non è solo tema di norme ma anche culturale. Sebbene nel più recente passato vi sia stata una tendenza ad assottigliare il divario fra realtà pubbliche e private, è evidente che residuano ampi spazi nei quali la differenza è evidente.
In questo contesto se si volesse fare un ragionamento più ampio esso dovrebbe muoversi da un differente approccio al concetto di subordinazione che, prima ancora del dato normativo, è presente nella realtà fattuale fra pubblico e privato.
Mentre nel privato è ormai da tempo in corso un ripensamento del concetto di subordinazione intesa come messa a disposizione delle energie lavorative e del tempo, a favore di una valorizzazione degli obiettivi e del risultato, nel pubblico è, evidentemente, resistente l’impostazione “classica” di cui si è detto.
De jure condendo la prospettiva non può che essere quella di un’auspicata revisione del concetto di subordinazione che coinvolga anche il settore pubblico. Solo in questa prospettiva di riconciliazione fra dato normativo e realtà e fra pubblico e privato sarà possibile rendere omogeneo, nei fatti, l’assetto dei diritti e delle tutele fra le due realtà.
Il fatto che lo scarso (per usare un eufemismo) rendimento non sia motivo di licenziamento è una dimostrazione della carenza di cultura della produttività e del merito nel nostro paese?
La questione del quando lo scarso rendimento è, o meno, motivo di licenziamento presupporrebbe un’analisi giurisprudenziale particolarmente complessa. Ancora una volta credo che, al di là di un diverso approccio culturale dei dipendenti, non si possa prescindere da quella revisione dell’idea di subordinazione di cui parlavo prima. La valutazione del rendimento scarso o meno è, in ultima analisi, la misurazione di un risultato.
Se e fino a quando questo elemento non diventerà parte integrante della verifica del corretto adempimento della prestazione, difficilmente, si potrà uscire dalle difficoltà che da sempre caratterizzano il tema dello “scarso rendimento”. Solo in questo quadro può essere sviluppata anche nel pubblico la cultura della produttività e del merito, come avviene – sebbene in assenza di precisi dati normativi – nel privato.